Politica
30 ottobre, 2025"L’importante è non perdere". Questa frase pronunciata da un big della destra sta facendo emergere quel nervosismo che FdI era riuscito a tenere nascosto. Dietro l’ottimismo ufficiale, cresce la consapevolezza che il referendum sulla giustizia sarà un giudizio politico sul governo
"L’importante è non perdere". Questa frase pronunciata da un big della destra nostrana nei corridoi di Palazzo Madama sta facendo emergere in superficie quel nervosismo che Fratelli d’Italia, fino a oggi, era riuscito a tenere ben nascosto. Il governo viaggia con il vento in poppa, i sondaggi danno la premier in gran spolvero e la riforma della giustizia sembra godere di un consenso solido, almeno nei numeri. Ma, dietro l’ottimismo ufficiale, cresce la consapevolezza che il referendum sulla giustizia sarà molto più di una consultazione costituzionale: sarà un giudizio politico sul governo, sulla sua leader e sulla tenuta dell’intera maggioranza.
Lo scenario, in apparenza, è favorevole. L’opposizione si presenta divisa, incapace di trovare un messaggio comune; la magistratura, alle prese con inchieste interne e polemiche sulla politicizzazione delle toghe, vive una crisi di credibilità che favorisce la narrazione meloniana della “riforma del buon senso”. Eppure, nelle ultime settimane, tra i fedelissimi della premier è tornata una parola che non si sentiva da tempo: prudenza. "Abbiamo imparato che in politica non esistono battaglie vinte in partenza", ragiona un ministro, ricordando la lezione di Matteo Renzi e del suo referendum del 2016.
A Palazzo Chigi, il timore è chiaro: se Meloni dovesse perdere il referendum, la sconfitta non resterebbe confinata alla riforma. Si trasformerebbe in una crepa nella leadership, in un segnale di fine ciclo. Non è un caso che i vertici di Fratelli d’Italia abbiano imposto una disciplina ferrea nella comunicazione: niente trionfalismi, niente slogan divisivi, niente attacchi diretti a chi voterà “no”. L’obiettivo è costruire un fronte di consenso trasversale: un voto per “stabilizzare” il Paese, non per cambiare equilibri di potere.
Ma l’ansia si sente. "Non possiamo permetterci passi falsi, il rischio è trasformare la consultazione in un plebiscito su Giorgia", confida un deputato di lungo corso. La premier, raccontano, segue i sondaggi settimanali con crescente attenzione. I numeri restano favorevoli, ma la forbice si assottiglia: il “sì” stabile, il “no” in risalita. In controluce, la paura che qualche "colpo di scena" possa far saltare il banco.
Ed è in questo clima che, tra i corridoi di via della Scrofa, si è iniziato a parlare di un possibile “piano B”. Una manovra di contenimento politico nel caso di sconfitta referendaria: ridisegnare la maggioranza, prendere le distanze da Salvini e dal suo elettorato più radicale, e aprire un dialogo con i centristi di Carlo Calenda per poi presentarsi al voto nel 2026 evitando così mesi di logoramento.
Fratelli d'Italia, pubblicamente, respinge qualsiasi ipotesi del genere. Ma il solo fatto che se ne parli rivela la fragilità del momento. Del resto, non è un mistero che i rapporti con Salvini siano ai minimi storici: le tensioni sull’autonomia, i distinguo sulla politica economica, le divergenze sul rapporto con Bruxelles. Per molti dentro Fratelli d’Italia, l’alleanza con la Lega resta un matrimonio di convenienza, destinato prima o poi a sciogliersi. "Il referendum — sospira un senatore meloniano — può essere l’occasione per ripensare tutto".
E così la macchina del partito si muove con disciplina quasi militare. "Giorgia deve apparire come la garante dell’ordine democratico, non come la capopopolo", spiegano dal suo staff.
Dietro quella parola d’ordine, “non perdere”, si condensa tutta la posta in gioco. Perché questa volta, più che un referendum sulla giustizia, sarà un referendum sulla premier. E Meloni lo sa bene: in Italia, quando un leader perde un referendum, le conseguenze politiche sono inevitabili.
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