Politica
20 novembre, 2025Dalla legge del 1968 all’alt della Corte dei conti su un contratto vecchio di vent’anni. Storia di un’opera con i costi lievitati dell’87 per cento. E che per le regole Ue dovrebbe andare a nuova gara
C’è un sondaggio fatto un paio di mesi fa secondo il quale il 51 per cento degli italiani sarebbe favorevole al ponte sullo Stretto di Messina, pensate. Ma ce n’è un altro del 2004, quando si era a un passo dalla gara d’appalto, per cui solo il 16,4 per cento degli intervistati credeva che l’avrebbero fatto sul serio. Profeticamente avevano ragione loro, quasi avessero intravisto l’incredibile catena di errori e pasticci che hanno segnato l’ultimo quarto di secolo.
Solo una cosa, finora, pare assodata. Che l’opera, se mai si farà, sarà intestata a Silvio Berlusconi come l’aeroporto di Malpensa. Il Cavaliere ha battuto ogni altro concorrente. Sconfitto Carlo Magno, candidato nel 1998 dal presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò. Surclassato l’ex segretario socialista Bettino Craxi, proposta avanzata nel 2002 anche da sua figlia Stefania che Antonio Di Pietro derubricò a «una burla», propugnando al posto il nome del magistrato vittima della mafia Rosario Livatino. Accantonati gli «Italiani nel mondo», preferiti dal ministro Pietro Lunardi. Sbaragliato San Francesco di Paola, protettore dei marinai che attraversò lo stretto sul proprio mantello, indicato dal vicecapogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Alfredo Antoniozzi. Annichilito perfino Giuseppe Garibaldi, per cui si è speso con una lettera alla premier Giorgia Meloni nientemeno che Francesco Garibaldi-Hibbert, figlio di Anita Garibaldi, pronipote dell’eroe dei due mondi.
Forza Italia ha voluto rivendicare l’intitolazione a Berlusconi con una delibera del Consiglio nazionale il primo ottobre 2023, a tre mesi dalla scomparsa del suo leader e fondatore. Che però, fosse stato per lui, avrebbe fatto appendere sui giganteschi piloni una targa per Ugo La Malfa. «Il ponte è un omaggio reso a lui e alla sua fede occidentale», dice al centenario della nascita del leader repubblicano.
Corre l’anno 2003, e Berlusconi è ormai il principale sponsor del ponte. Per le elezioni del 2001 è andato da Bruno Vespa per firmare il contratto con gli italiani, segnando sulla cartina le grandi opere della legge obiettivo. Compreso, con entusiasmo, il ponte sullo Stretto. Pochi però ricordano le sue titubanze di qualche anno prima. Il 9 maggio 1994 a felicitarsi perché il Cavaliere «parlando da leader designato ha smentito che nel suo programma di governo figurasse il ponte sullo Stretto», è il deputato di Forza Italia Amedeo Matacena, della famiglia che gestisce i traghetti fra Messina e Villa San Giovanni. Irritato perché «è sempre stato privilegiato il ponte a scapito del tunnel». Dieci anni prima suo zio Elio ha fondato una società, Ponte di Archimede, che porta avanti l’idea di un tunnel «alveo», cioè sospeso nell’acqua a una certa profondità per collegare le due sponde sfruttando la spinta idrostatica. Idea però ormai velleitaria: grazie alla forza del partito del cemento il ponte ha vinto fin da subito sul tunnel.
La prima legge che gli apre la strada è del 27 marzo 1968, ultimo governo di Aldo Moro. Giorni caldissimi. Scoppia il Sessantotto e le Camere sono già sciolte per le elezioni politiche del maggio seguente. La legge stanzia 700 milioni di lire, 21 milioni di euro di oggi, per un concorso internazionale di idee entro marzo 1969. Si presentano in 143 e i vincitori ex aequo sono sei. Fra questi un solo ponte a campata unica sorretto da piloni alti 600 metri, di progettisti italiani: la tipologia che verrà poi scelta. Ma c’è anche un tunnel sospeso a mezz’acqua, di progettisti inglesi: schema che sarà poi ripreso da Matacena e dall’Eni.
La partita sembra perciò ancora aperta. A spostare l’ago della bilancia ci pensa il governo di Emilio Colombo nel 1971, che fa approvare il 17 dicembre una legge con la quale viene creata una società pubblica per gestire l’affare. Non si parla di un ponte, ma di un assai più generico «attraversamento stabile» del braccio di mare fra Scilla e Cariddi. Però la società non vede la luce che dieci anni dopo, nel 1981. E si capisce subito che la sorte del tunnel è segnata. Dominus è Gianfranco Gilardini: animatore del Gruppo ponte di Messina che è, appunto con il progetto di un ponte, fra i vincitori ex aequo del concorso del 1969. La legge istitutiva della società Stretto di Messina spa stabilisce inoltre che il 51 per cento è dell’Iri. E la quota finisce in mano all’Italstat di Ettore Bernabei, allora potentissimo factotum delle concessioni pubbliche. Regna il cemento e non c’è opera pubblica che sfugga al controllo della società statale sotto l’egida Dc che governa incontrastata quel regno.
A nulla servono gli sforzi dell’Eni, che gravita invece nell’orbita politica socialista, e dove nel frattempo gli esperti di progetti sottomarini si sono dati molto da fare. L’ipotesi di far passare treni e auto in una galleria, piuttosto che su un ponte sospeso a 80 metri d’altezza, è derubricata a un puro esercizio di stile. Con un grave difetto: il fatto è che, a differenza di un ponte monumentale, un tunnel è invisibile. Invece un’opera così politicamente importante si deve vedere.
È il ponte, dunque, che s’ha da fare. Ne è consapevole anche il presidente dell’Iri Romano Prodi, che il 7 settembre 1985 annuncia a Panorama: «I lavori del ponte cominceranno al più presto». Quando però nel 2001 si apre l’era Berlusconi e le condizioni politiche sembrano ideali, cominciano i pasticci.
Mentre il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi giura che i cantieri saranno aperti «nel primo semestre 2004», ci vogliono quasi cinque anni per fare la gara. Vince non a sorpresa il consorzio guidato da Impregilo. Ma per la firma del contratto bisogna aspettare chissà perché altri sei mesi, il 27 marzo 2006. Non un giorno qualsiasi. Mancano meno di due settimane alle elezioni politiche, e alla vittoria annunciata dell’Unione guidata da Prodi, che in campagna elettorale ha già decretato il blocco dell’opera. Profetiche, quel giorno, le parole della senatrice dei Verdi Anna Donati: «Questa è una grave forzatura. Sarebbe stato meglio attendere le indicazioni del nuovo governo, anziché assicurare subito un regalo ad Impregilo a spese dei contribuenti». Una fin troppo banale questione di galateo istituzionale, che però avrebbe evitato una mostruosa lite legale capace di complicare ancora di più le cose.
La macchina si arresta. Ma il governo Prodi dura appena due anni e al ritorno di Berlusconi potrebbe ripartire di slancio. Il nuovo ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli garantisce che i lavori inizieranno nel 2009 e che «il ponte non ci costa una lira perché si fa tutto in project financing. Come previsto», precisa nel 2011, «dal piano finanziario allegato al progetto definitivo». Il progetto definitivo a quel punto c’è, ma sta finendo anche il quarto governo Berlusconi. E altri tre anni e mezzo non sono bastati ad aprire i cantieri per una gara aggiudicata dal medesimo governo ben sei anni prima. Poi un bel giorno ecco il suicidio. Il viceministro delle Infrastrutture Aurelio Misiti avalla in Parlamento una mozione dipietrista che revoca i finanziamenti pubblici per il ponte.
Non bastasse, Forza Italia non si oppone alla successiva tagliola imposta dal governo di Mario Monti, che priva di validità il contratto con il general contractor. Né alla decisione del governo di Enrico Letta, sostenuto anche dal centrodestra, che mette in liquidazione la società Stretto di Messina con la tassativa durata per legge di un solo anno della procedura.
Liquidatore è Vincenzo Fortunato, abilissimo ex capo di gabinetto di Giulio Tremonti e Antonio Di Pietro. Che compie un miracolo. Fa durare la liquidazione dieci anni anziché uno. Con il risultato che per rimettere in moto il ponte, dopo che la destra nel settembre 2022 rivince le elezioni, basta riattivare la società concessionaria. Lo fa un notaio, Alfredo Maria Becchetti, che incidentalmente è candidato, senza fortuna, alle ultime politiche con la Lega di Matteo Salvini: colui che più di ogni altro, dopo averlo in passato contestato, adesso vuole fare quel benedetto ponte.
Nemmeno la resurrezione della Stretto di Messina, però, aiuta a sbloccare la situazione. Trascorre inutilmente un altro triennio, e fanno almeno 11 anni a più riprese, sempre sotto il segno della identica maggioranza politica e dello stesso management nominato da quella maggioranza, senza venirne a capo. E non può essere un caso. Fra promesse mirabolanti di centinaia di migliaia di posti di lavoro ora si mette di mezzo pure la Corte dei conti. Ma se lo potevano aspettare. Come si può considerare valido un contratto aggiudicato vent’anni fa all’equivalente attuale di 5,6 miliardi salito ora (delibera Cipess) a 10,5 miliardi, con un aumento reale dell’87,5 per cento, mentre le regole Ue recepite dall’Italia impongono una nuova gara in caso di incrementi superiori al 50 per cento? Soprattutto, se nel 2005 il costo dell’appalto fosse stato interamente a carico dello Stato anziché dei privati, come (Matteoli dixit) prevedeva il piano finanziario dell’epoca, la gara non avrebbe avuto un diverso svolgimento magari con altri concorrenti? Si potrebbe andare avanti con le cose che non tornano. E per essere l’ennesimo sgambetto dei giudici forse è un po’ troppo.


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