Politica
6 novembre, 2025C’era un progetto che, nelle stanze romane della destra, era circolato come un’idea quasi romantica: mettere il nome del premier direttamente sulla scheda elettorale, per trasformare la leadership in una sigla immediata. Per il momento quell’ipotesi è finita nel cassetto dei sogni
C’era un progetto che, nelle stanze romane della destra, era circolato come un’idea quasi romantica: mettere il nome del premier direttamente sulla scheda elettorale, per trasformare la leadership in una sigla immediata agli occhi dell’elettorato. Un colpo d’immagine che avrebbe sancito una supremazia solida, quasi monarchica, nel panorama politico italiano. Per il momento, però, quell’ipotesi è finita nel cassetto dei sogni.
A parlare non sono solo i detrattori della cosa — che la vedono come un esercizio di personalizzazione e di sovrapposizione fra partito e persona — ma, soprattutto, i partiti della maggioranza che temono di essere cannibalizzati da un’operazione che dissolverebbe ogni visibilità collettiva. Fonti parlamentari riferiscono che la proposta ha svelato una frattura più profonda: non è tanto la forma che preoccupa, quanto la sostanza politica che essa implica, cioè la concentrazione del potere e della comunicazione intorno a una sola figura.
La reazione più fragorosa, raccontano i dirigenti coinvolti, è arrivata da Forza Italia. L’idea di cancellare il nome storico — quello che da decenni identifica il partito ovvero Silvio Berlusconi — dal simbolo o dal perimetro comunicativo ha innescato tensioni che vanno ben oltre il puro marketing elettorale. «Non si tratta solo di estetica del simbolo, ma di identità», sussurra un deputato azzurro. E quando Antonio Tajani ha preso una posizione possibilista, quelle tensioni sono esplose: da una parte chi invoca prudenza e unità; dall’altra, falchi che vedono nella rinnovata centralità del leader di Fratelli d’Italia una minaccia per il futuro del partito.
A Milano — dicono gli ambienti vicino ai vertici — la polemica è degenerata in un acceso confronto tra uomini di peso e figure vicine alla famiglia di Arcore. Non è un mistero che il nome storico del fondatore resti un bene simbolico e politico: chiunque provi a marginalizzarlo sa di mettersi contro quell’elettorato storico che ha costruito il centrodestra in Italia. La famiglia stessa, secondo più fonti, osserva con apprensione qualsiasi mossa che possa cancellare tracce di quel passato dal presente del partito.
Non meno complessa la reazione all’interno della stessa Fratelli d’Italia. L’idea della «incoronazione» — così l’hanno bollata alcuni — non trova l’unanimità: i «poteri sotterranei» del partito, gli uomini di peso che hanno costruito la macchina organizzativa, storcono il naso di fronte a una personalizzazione spinta che potrebbe erodere le loro zone di influenza. «Un conto è la leadership carismatica, un altro è la monarchia elettorale», dice un dirigente che preferisce restare anonimo.
Il risultato netto, al momento, è che l’ipotesi di stampare il nome del premier sulla scheda elettorale è stata — ufficiosamente — bocciata dai partner di coalizione. Per alcuni è stata una boccata d’ossigeno: meglio preservare i partiti come contenitori politici piuttosto che antropomorfizzarli in un’unica figura. Per altri rappresenta una sconfitta tattica ma non strategica: l’ambizione rimane, semplicemente cambia forma. Non si tratta di rinunciare ai grandi obiettivi, ma di rimodulare tempi e modalità.
In politica, del resto, gli effetti dell’ambizione personale si misurano con la capacità di tenere insieme le correnti, non con il gesto simbolico che cancella i confini. E mentre nelle stanze del potere si smaltisce il colpo d’immagine, l’unica certezza è che la partita interna non è chiusa: la tentazione di giocarsi la leadership resta viva, ma — per ora — dovrà passare dalla via più lunga della costruzione di consenso e non dall’immediata, e rischiosa, scorciatoia dell’“incoronazione”.
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