U n giorno, la notizia è l’invasione di migliaia di gitanti della domenica sui pendii coperti di neve della più famosa località sciistica dell’Italia centrale. Una settimana più tardi, quando autorità e operatori commerciali hanno predisposto misure di accoglienza e deterrenza per impedire l’affollarsi di pullman, e da giorni su media e social ferve un dibattito che riecheggia quello sui “lanzichenecchi” del famoso viaggio a Foggia di Alain Elkann, la notizia è un’altra: a Roccaraso la neve non c’è più. È bastato un giorno di pioggia per far sciogliere gran parte dello strato accumulato grazie alle bufere di dicembre e gennaio. A conferma di uno dei dati più preoccupanti sull’effetto del riscaldamento globale nelle località di montagna: non solo cade meno neve, ma anche la durata del manto nevoso è diminuita. Secondo dati riportati da Legambiente, sulle Alpi rispetto a cent’anni fa la quantità di neve si è dimezzata mentre la durata si è accorciata di un mese. La causa è un riscaldamento atmosferico medio che nelle località di montagna italiane è già arrivato a due gradi.
È vero che il negazionismo riguardo al cambiamento del clima è sempre più sulla cresta dell’onda: basti pensare che Donald Trump a pochi giorni dall’insediamento ha ordinato al ministero dell’Agricoltura di censurare tutti i siti di informazioni sull’ambiente e le foreste, e in particolare di «identificare e archiviare o disattivare tutte le pagine sul tema del cambiamento climatico». Le conseguenze dell’aumento delle temperature medie però sono ormai così evidenti da influenzare perfino gli influencer. L’invasione di Roccaraso, innescata dall’entusiasmo tossico della tiktoker Rita De Crescenzo, è il simbolo di un rapporto con la neve or- mai malato. Una passione travolgente che nasce da un carpe diem sempre più drammatico: vai sulla neve oggi perché domani probabilmente si sarà sciolta. E il prossimo inverno magari sarà come l’anno scorso: non nevicherà affatto... La stessa ansia spiega il crescente affollamento natalizio nelle località alpine, dove sciatori che non si fidano più di aspettare le settimane bianche si sfiorano pericolosamente scendendo a centinaia su piste di neve artificiale, stese come rotoli di carta igienica in mezzo a prati quasi estivi.
Alla crisi della neve, e alle conseguenze sociali ed economiche che ne derivano, il giornalista della Stampa Michele Sasso ha dedicato un libro intero, “Montagne immaginarie” (Edizioni Ambiente). Tra i mille dati che Sasso inanella per raccontare la diminuzione dell’innevamento (nel mondo «negli ultimi 100 anni la copertura glaciale si è ridotta del 50 per cento. Nei prossimi 20, secondo gli ultimi studi, la superficie sarà ridotta dell’80 per cento») e le sue conseguenze sull’«economia bianca» («che in Italia ha un giro d’affari di 11 miliardi di fatturato, pari al 12 per cento del Pil turistico nazionale», e che fa dell’Italia «secondo la classificazione territoriale di Eurostat, il primo dell’Unione europea a 27 per Pil realizzato in province montane»), colpiscono due avvenimenti paralleli: i ghiacciai che spariscono e i laghi che nascono. «Nelle nostre Alpi italiane negli ultimi vent’anni si sono estinti almeno 180 ghiacciai di grandi e piccole dimensioni», e più o meno nello stesso periodo «in Valle d’Aosta il numero totale dei laghi glaciali è quasi raddoppiato, con la comparsa di 170 specchi d’acqua».
Le cronache invernali raccontano anche di un aumento degli incidenti dovuti a valanghe e bufere improvvise, che diventano più frequenti perché le montagne attirano più turisti, anche impreparati, ma soprattutto per il cambiamento delle condizioni climatiche. La morte di escursionisti esperti, dal Piemonte al Gran Sasso, si spiega anche così: «Stiamo scoprendo che comportamenti che potevamo dire sicuri fino a dieci o vent’anni fa, oggi creano rischi consistenti», ha spiegato Claudio Smiraglia, docente di Geografia fisica all’Università Statale di Milano e per molti anni presidente del Comitato glaciologico italiano. Quando, a ottobre dell’anno scorso, la sciatrice azzurra Matilde Lorenzi è morta durante un allenamento, Gustav Thöni ha ricordato che «sciare su un ghiacciaio è più complicato»: ma oggi c’è la necessità di andare a cercare la neve su un ghiacciaio alpino oltre i tremila metri a fine ottobre, come se a metà dell’autunno si fosse ancora in piena estate.
Per le zone legate all’«economia bianca» le strade sono due: adattarsi o resistere. Gli operatori tradizionali si aggrappano alla seconda ipotesi, con l’appoggio spesso scriteriato dei fondi pubblici: il ministero del Turismo guidato da Daniela Santanchè ha stanziato per il biennio 2023/24 ben 378 milioni di euro per l’ammodernamento degli impianti di risalita e di innevamento artificiale. Si comprano cannoni sparaneve sempre più efficienti anche ad alte temperature, si costruiscono laghi artificiali per immagazzinare acqua, e soprattutto si progettano nuovi impianti a quote sempre più alte. Il classico “Giro dei Quattro Passi” dovrebbe trasformarsi nel “Carosello delle Dolomiti”, il comprensorio più grande al mondo, con 500 impianti di risalita e 1.300 km di piste tra Cortina, Arabba, e Val Badia. Cesana Torinese sogna di diventare la Dubai italiana, con uno Sky Dome che dovrebbe prendere il posto dell’ormai inutile pista da bob costruita per le Olimpiadi di Torino del 2006, permettendo di sciare per tutto l’anno su due discese racchiuse in una cupola di vetro.
Chi invece cerca di adattarsi lo fa senza clamore: in fondo ciaspolate, gite in slitta e orienteering nei boschi si sono sempre organizzati. Ora però si esagera: come quando per far posto alle bici elettriche si tesse in montagna una rete di piste ciclabili che cannibalizzano i sentieri per gli escursionisti. Quello che non si è mai ammesso per le moto da cross lo si fa per questi mezzi sempre più potenti e pesanti. Che non sporca- no l’aria, è vero, ma divorano elettricità e consumano sempre più terreno.