Frontiere chiuse
Sei anni in Libia per il rimpatrio illegittimo
Il giudice di Roma accoglie il ricorso delle associazioni. Torna il profugo del Sudan, salvatosi da un naufragio nel 2018, espulso e consegnato ai lager dei torturatori in Nord Africa
Il 25 dicembre scorso Abdelatif, 33 anni, fuggito dalla guerra in Sudan, ha finalmente messo piede in Italia dopo lunghe sofferenze. Un evento che rappresenta una clamorosa vittoria per i diritti umani, seppur sancita da un giudice del tribunale civile di Roma. Soprattutto a fronte del rimpatrio di Najeem Habis Almasri, capo della polizia libica ricercato per crimini contro l'umanità dalla Corte penale internazionale. L’Italia era tenuta a consegnarlo al Tribunale dell’Aia, dopo l’arresto a Torino, ma ha preferito compiacere le autorità libiche alle quali ha affidato il controllo dei nostri confini marittimi e la detenzione arbitraria, con tanto di torture, dei migranti respinti. Per questo il visto di ingresso concesso a un richiedente asilo, risultato di una battaglia legale basata sul ripristino di un diritto che, secondo le convenzioni internazionali e la nostra Costituzione, dovrebbe essere garantito, acquisisce una valenza maggiore.
La storia di Abdelatif, segnata dalle violenze nella regione di origine in un Paese costantemente insanguinato da conflitti – l’ultimo iniziato nell’aprile del 2024 ha causato almeno 150 mila morti – lo porta a rischiare la vita attraversando il Mediterraneo. Il gommone su cui viaggiava dalla Libia verso l’Italia è affondato il 1° luglio del 2018. «A bordo – racconta – c’erano tante donne e bambini che avrebbero potuto essere salvati. Hanno resistito ore mentre sulle nostre teste volava un elicottero militare che anziché lanciare salvagenti, si limitava a sorvegliare». Abdelatif e altri 17 sono gli unici sopravvissuti. Le autorità italiane erano state informate da una delle persone a bordo, che era riuscita a contattare la Guardia costiera. Nonostante la presenza di una nave della Marina nelle vicinanze, la Caio Duilio, il “soccorso” dei naufraghi era stato affidato alla motovedetta libica Zuwarah. Quando è arrivata, il gommone era già affondato. A causa del sovraffollamento nello scafo e delle condizioni meteomarine avverse, la Zuwarah ha faticato a gestire il numero crescente di persone a bordo, recuperate in successive intercettazioni. È a quel punto che entrano di nuovo in gioco le autorità italiane, rappresentate dalla nave militare Caprera che dà istruzioni all’imbarcazione privata Asso 29, che si trovava in rotta verso la piattaforma petrolifera Bouri Field, di offrirе assistenza ai libici. Il 2 luglio 2018 assieme ad altri 249 migranti fuggiti dalla Libia, Abdelatif sbarca a Tripoli dalla nave mercantile italiana della società armatrice Augusta offshore.
Pur con la consapevolezza di essere scampato alla morte in mare, per Abdelatif inizia un calvario. Dopo lo sbarco, lui e le altre persone respinte sono state arbitrariamente detenute in diversi centri: Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan, dove hanno vissuto in condizioni di vita atroci tra sovraffollamento, cibo e acqua insufficienti, condizioni igieniche drammatiche e scarse possibilità di uscire all’aria.
L’incubo è finito quando Josi&Loni Project, collettivo di volontari guidato dall’attivista Sarita Fratini (vedi intervista nelle pagine seguenti), è riuscito a identificare lui e altri migranti vittime di quella deportazione illegale. Dopo essere rimasto imprigionato per mesi in un vero e proprio lager, sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, compresa la tortura, Abdelatif ha ricevuto la protezione che gli era dovuta. Il tribunale ha riconosciuto l’illegittimità della condotta delle autorità italiane nel suo caso e di molti altri richiedenti asilo, stabilendo che «nel coordinare le operazioni congiunte con le forze libiche, abbiano violato gli “obblighi” internazionali che impongono agli Stati di prevenire atti di tortura e trattamenti inumani».
La vicenda di Abdelatif è solo una delle molte che testimoniano le violazioni sistematiche dei diritti dei migranti. La gravità della situazione diventa ancor più evidente quando si considera che è stato necessario l’intervento di un giudice. «È inaccettabile che le persone come Abdelatif debbano ricorrere a misure straordinarie e alla giustizia per vedere rispettati diritti fondamentali che dovrebbero essere garantiti automaticamente», afferma Alice Basiglini, volontaria dell’associazione BaoBab Experience che ospita a Roma il rifugiato sudanese. La battaglia legale è stata condotta da un ampio collegio di avvocati dell’Asgi, che assieme a Josi&Loni Project ha lavorato instancabilmente per ricostruire e documentare le violazioni che avevano subito i naufraghi. La loro tenacia ha portato a una sentenza storica ma molti altri migranti, ancora oggi, rimangono intrappolati in situazioni disperate, senza alcuna forma di protezione. Una situazione insostenibile amplificata dal contesto in cui si sviluppa: il Mediterraneo, un luogo diventato simbolo di interpretazioni distorte del diritto. Numerose organizzazioni non governative, tra cui Amnesty International e Medici senza frontiere, evidenziano in un report pubblicato a fine 2024 che «gli episodi di respingimento collettivo e le pratiche di soccorso brutale dei libici, supportate da accordi intergovernativi spesso opachi, continuano a creare una situazione insostenibile nei confronti di chi cerca rifugio dalla guerra e dalla persecuzione». La denuncia è doverosa: a partire dal 2018, almeno 300 persone hanno dimostrato di aver subito respingimenti illegali in Libia. Molti di loro, nonostante abbiano i requisiti per ottenere lo status di rifugiato, si trovano ancora oggi in una condizione di vulnerabilità, senza alcun accesso alla protezione internazionale. «La giustizia deve essere garantita per tutti, non solo per coloro che riescono a far sentire la propria voce. L’arrivo di Abdelatif è un simbolo di speranza, ma anche un monito su quanto il percorso verso un vero rispetto dei diritti umani sia ancora lungo. Non possiamo permettere che lo status dell’asilo politico diventi un privilegio per pochi, deve essere un diritto per tutti», è la convinzione di Alice e di tutti gli attivisti impegnati nel sostegno ai migranti e ai richiedenti asilo che rischiano la vita per un’esistenza dignitosa e in sicurezza.