Caso Almasri
I ministri perseguitati immaginari: false accuse al procuratore per non parlare del torturatore liberato
Il pm di Roma che ha indagato la premier Meloni è difeso dai maggiori giuristi, come Azzariti: «Era un passaggio obbligato, imposto dalla legge». E la giustizia è disarmata: il Parlamento può fermare i processi. Negli ultimi trent'anni, nessuna condanna
Tutto falso. Non era un avviso di garanzia. Non è stata una scelta arbitraria del procuratore di Roma, tantomeno una manovra politica. La trasmissione degli atti al tribunale dei ministri, per chiamare i giudici competenti a valutare il caso del mancato arresto di un ufficiale libico ricercato dalla giustizia internazionale, non si può considerare nemmeno un atto d'indagine. È solo un passaggio giudiziario obbligato, con la procedura più favorevole alle difese, che è assurdo interpretare come un attacco al governo. Anzi, le probabilità che Giorgia Meloni e i suoi ministri debbano affrontare davvero un processo, secondo vari esperti di diritto costituzionale consultati da L'Espresso, sono «bassissime». E il rischio di una condanna, salvo imprevedibili scoperte future, al momento va ritenuto «praticamente nullo».
I costituzionalisti difendono il procuratore
Ad accettare di chiarire nei dettagli la vicenda legale è il professor Gaetano Azzariti, uno dei massimi giuristi italiani, che insegna diritto costituzionale all'università La Sapienza di Roma. Il docente parte dall'inizio: l'atto notificato dal procuratore di Roma alla premier e ai ministri coinvolti nel caso di Osama Al Najeem, detto Almasri. «Non è un avviso di garanzia», spiega il professore: «È una comunicazione di una trasmissione degli atti, che è imposta dalle norme costituzionali e che non rappresenta un atto d'indagine. Quando riceve una denuncia di cui non sia a prima vista evidente l'infondatezza, il pubblico ministero è tenuto per prima cosa a inviarla al tribunale dei ministri, senza poter compiere alcuna attività istruttoria. "Omessa ogni indagine", dice testualmente la legge costituzionale del 1989, che impone al procuratore anche di "darne immediata comunicazione ai soggetti interessati", cioè ai ministri stessi, a loro beneficio, per metterli in condizione di replicare subito alle accuse con atti difensivi».
Il procuratore Francesco Lo Voi è stato comunque attaccato per la preliminare iscrizione dei ministri nel registro degli indagati: si è parlato di «atto voluto». Azzariti sgombra il campo anche da questa polemica: «Non è una scelta a discrezione del procuratore, è un passaggio procedurale obbligato per poter trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, cioè a un collegio di tre giudici estratti a sorte, che una volta investito del caso potrà decidere di indagare, ma anche di archiviare. L'iscrizione è regolata dal codice, che prevede due presupposti davvero minimi: la denuncia deve riguardare un "fatto determinato" e "non inverosimile". Nel caso in questione, il mancato arresto dell'esponente libico è un fatto certo: e che fatto. Oltretutto, qui c'è stata una formale denuncia di un avvocato, non si tratta di un procedimento aperto dal procuratore d'ufficio».
Strategia della disattenzione
Questo parere è confermato da altri giuristi, milanesi e romani, che preferiscono non esporsi. Ma allora come si spiegano gli attacchi feroci contro un procuratore che notoriamente non ha alcun legame con la sinistra, anzi al Csm fu sostenuto dai consiglieri e dalle correnti di centrodestra? «Viene da pensare a una strategia della disattenzione», risponde Azzariti. «Si parla e magari straparla di diritto, del procuratore che indaga la premier Meloni, per distogliere l'attenzione dal fatto, che è molto grave: non è stato eseguito un ordine d'arresto deliberato dalla Corte penale internazionale, istituita con un trattato firmato a Roma, che l'Italia si è impegnata ad applicare. Ora invece un ricercato per accuse molto gravi, come abusi e torture su detenuti inermi, anziché essere consegnato alla giustizia internazionale, è stato riportato in patria con un volo di Stato».
L'attacco giudiziario non esiste
Il giurista non crede che il procuratore abbia trasmesso gli atti per arrivare a un processo. «Come per ogni altro accusato, è tutto da dimostrare che i ministri coinvolti abbiano commesso reati e personalmente sono convinto che, in questo caso, il procedimento penale finirà per essere archiviato. Ma il fatto va spiegato, motivato: il governo deve dare conto delle proprie azioni, deve giustificare la propria scelta come atto politico. Invece si preferisce attaccare il procuratore e la stessa Corte internazionale. Questo è anomalo. Ma si inserisce in una preoccupante tendenza generale: negli ultimi anni sta crescendo una pressione a livello mondiale, sempre più forte, a non rispettare il diritto e a non riconoscere la giustizia internazionale».
Il fatto certo: il rilascio dell'ufficiale libico ricercato per torture
Il protagonista del caso, Osama Al Najeem, è il capo della polizia giudiziaria, che controlla anche le carceri, del governo di Tripoli, l'unico riconosciuto dall'Italia e dalla Ue. Almasri, che significa l'egiziano, è il suo nome di battaglia: nella guerra civile libica aveva un rango da generale e comandava una potente milizia islamista, chiamata Rada, che ha combattuto contro le truppe di Gheddafi, poi contro l'Isis e ora è schierata contro l'esercito di Haftar. Colpito da un ordine di arresto deliberato il 18 gennaio dalla Corte penale internazionale, è stato fermato a Torino, mai poi liberato dall'Italia e rimpatriato in Libia, quattro giorni dopo, con un aereo di Stato.
Secondo il collegio di magistrati internazionali, Al Najeem avrebbe commesso per anni, a partire dal 2015, crimini di guerra e contro l'umanità: è accusato di aver coordinato, ordinato e in alcuni casi eseguito personalmente omicidi, torture e violenze sessuali anche su minori nelle carceri di Tripoli, in particolare nella famigerata prigione di Mitiga, dove vengono segregati, a migliaia, i migranti che sognano di arrivare in Europa.
La denuncia contro i ministri
L'indagine di Roma nasce da una denuncia presentata dall'avvocato ed ex parlamentare Luigi Li Gotti, che ha ipotizzato due reati: favoreggiamento, a carico della premier Giorgia Meloni e dei ministri Carlo Nordio e Matteo Piantedosi, per il rilascio del ricercato; peculato, per il sottosegretario Alfredo Mantovano, per il suo rimpatrio con l'aereo dei servizi segreti, a spese dello Stato italiano.
Il procuratore Lo Voi ha aggiunto un'ulteriore ipotesi di reato, omissione di atti d'ufficio, per il solo ministro della giustizia, Carlo Nordio, come lo stesso ex magistrato ora onorevole di Fratelli d'Italia ha rivelato nell'audizione parlamentare del 5 febbraio. A spiegare questa accusa è la ricostruzione dei fatti diffusa tra gli altri dall'Associazione nazionale magistrati: «Al Masri è stato liberato per l'inerzia del ministro della giustizia, che avrebbe potuto e dovuto, per rispetto degli obblighi internazionali, chiederne la custodia cautelare in vista della consegna alla Corte penale internazionale». Nell'audizione, Nordio ha rivendicato la scelta di ignorare un ordine d'arresto da lui definito contraddittorio e «radicalmente nullo».
Un esposto anche alla Corte internazionale
Dopo il rilascio dell'ufficiale libico, la Corte penale internazionale ha aperto a sua volta un fascicolo sul governo italiano, dopo aver ricevuto una denuncia da un rifugiato sudanese, dove si ipotizza un'accusa di ostruzione alla giustizia, cioè di aver ostacolato l'inchiesta della stessa Cpi, permettendo al ricercato di sfuggire all'arresto. La notizia è stata rivelata il 6 febbraio dal quotidiano L'Avvenire, precisando che la premier Giorgia Meloni e gli altri ministri coinvolti sono indicati nel fascicolo internazionale come sospettati. La stessa Corte, su richiesta del governo italiano, ha poi chiarito che non sono indagati: i giudici internazionali devono ancora valutare la denuncia.
Reati ministeriali: in 30 anni nessuna condanna
In attesa dei futuri sviluppi giudiziari, per capire se in Italia i ministri indagati a Roma rischino davvero qualcosa, può bastare leggere le norme e contare i precedenti. In tre secoli di processi per reati ministeriali, a memoria di giuristi, si contano solo tre condannati. Per fatti commessi negli ultimi trent'anni, nessuno.
Dallo scandalo Lockheed a Tangentopoli
Il primo fu Mario Tanassi, dichiarato colpevole nel 1979 di corruzione, come ministro socialdemocratico della Difesa, per le tangenti dello storico scandalo Lockheed. Fu l'unico processo celebrato con la procedura originaria prevista dalla Costituzione del 1948: indagini affidate a una commissione parlamentare inquirente, aperta anche all'opposizione; giudizio davanti alla Consulta, che decide con una sentenza inappellabile.
Durante la cosiddetta Prima Repubblica non si ricordano altre condanne. All'epoca il privilegio legale dell'immunità proteggeva tutti i parlamentari anche dai processi: in mancanza dell'autorizzazione a procedere della Camera o del Senato, i magistrati erano obbligati ad archiviare. L'abuso dell'immunità ha spinto il Parlamento a votare a larghissima maggioranza la sua abolizione, nel 1993, sull'onda delle indagini sulla cosiddetta Tangentopoli, un colossale sistema di corruzione e fondi neri che si può riassumere in un dato: solo a Milano, nel biennio 1992-94, ci sono state più di 1.200 condanne definitive di imprenditori e politici, tra cui decine di parlamentari e ministri. In diversi casi, quella storica indagine milanese (che allora veniva chiamata Mani Pulite) ha dimostrato la colpevolezza anche di parlamentari potenti che a suo tempo avevano ottenuto l'immunità, anche se poi è risultato provato che avevano conti esteri segreti con tangenti milionarie, confessate da tutti gli altri accusati.
Obiettivo finale: l'immunità parlamentare
Oggi i vertici di due partiti di governo, Forza Italia e Lega, con l'appoggio di singoli esponenti e ministri di Fdi, propongono di ripristinare l'immunità parlamentare: deputati e senatori, che già ora non possono essere intercettati, perquisiti o fermati, tornerebbero a costituire una casta legale di super privilegiati, in grado di evitare qualsiasi processo penale con un no politico all'autorizzazione a procedere. Per giustificare il ritorno dell'immunità, diversi politici della maggioranza citano proprio il caso dei ministri indagati per il caso Almasri. In realtà, la procedura che regola i reati ministeriali è stata cambiata prima di Tangentopoli, con la legge costituzionale numero 1 del 1989, che ha mantenuto l'autorizzazione a procedere. Da allora a raccogliere le denunce è il procuratore capo, che però fa solo da passacarte. Le indagini vengono svolte dal tribunale dei ministri: un collegio di tre giudici estratti a sorte tra tutti i magistrati del distretto. E dopo i primi 90 giorni, prorogabili fino a 150, i magistrati devono ottenere l'autorizzazione a procedere della Camera o del Senato (che si occupa anche dei non parlamentari). Dunque, qualsiasi caso giudiziario su ipotetici reati ministeriali può essere fermato e annientato con un voto politico della maggioranza. I giudici stessi possono archiviare in anticipo ogni atto ministeriale che risulti realizzato «nel preminente interesse pubblico».
Con le norme attuali, dal 1989 ad oggi, nell'archivio storico dell'Ansa si parla di tribunale dei ministri in almeno 3.275 notizie. Ma di condanne definitive se ne contano solo altre due. Per fatti che risalgono a più di trent'anni fa. Franco Nicolazzi è stato condannato per concussione, come ministro socialdemocratico dei Lavori pubblici, per lo scandalo delle carceri d'oro, aver estorto tangenti a un costruttore milanese, alla fine degli anni '80. Una sentenza confermata nel 1997 dalla Cassazione, che nel 2011 ha reso definitiva anche la condanna di Francesco De Lorenzo, per corruzione e associazione per delinquere, per le tangenti milionarie versategli fino al 1992 da diversi industriali farmaceutici, quando era ministro liberale della sanità. In entrambi i casi le indagini erano nate dalle confessioni-fiume degli imprenditori, che dopo la fine di Mani Pulite sono diventate merce rara.
Una legge ultra-favorevole alle difese
Negli ultimi trent'anni si sono susseguiti i procedimenti e le polemiche su decine di ipotesi di reati ministeriali, anche in vicende clamorose, da Gladio ai fondi neri del Sisde, dalla Tangentopoli di Roma al Mose di Venezia. Ma i tribunali dei ministri hanno continuati a funzionare come fabbriche di archiviazioni e proscioglimenti, con qualche episodica sentenza di prescrizione. Passando in rassegna i singoli casi, si trovano pochissime indagini che abbiano fatto emergere fatti nuovi, in precedenza sconosciuti: quasi tutti i procedimenti riguardano atti pubblici, visibili, dai voli di Stato alle nomine ministeriali, dalle consulenze agli sbarchi delle navi delle ong. Fatti notori, di cui si discute solo l'eventuale rilevanza penale, come nel caso della recente assoluzione a Palermo del ministro Matteo Salvini.
A spiegare la scarsità di condanne, secondo magistrati molto esperti, è anche la procedura ultra-garantista ora rinfacciata al procuratore di Roma. Appena riceve una denuncia, come si è visto, il pubblico ministero ha il dovere di avvisare subito l'accusato, «omessa ogni indagine». È una norma che contrasta con il comune senso del pudore investigativo, soprattutto in casi di corruzione, fondi neri o altri reati che vengono tenuti nascosti: avvertire l'indagato significa permettere a lui e ai suoi possibili complici di far sparire le prove, nascondere i soldi, fare pressioni sui testimoni. È un privilegio legale che sembra studiato da furbissimi scienziati del diritto per ridurre al minimo il rischio di veder condannare qualche ministro.
Alla luce di tutto questo, la durissima reazione della premier in persona e dei maggiori esponenti della sua maggioranza contro l'avvio di un'indagine soltanto preliminare, anzi embrionale, può nascondere motivazioni e intenzioni diverse da quelle dichiarate: delegittimare ancora una volta la magistratura, con l'obiettivo finale di sottrarre il governo a qualsiasi controllo giudiziario. E magari screditare in anticipo inchieste non ancora emerse della Procura di Roma.