Alle 22 e 54 il telefono suona per l’arrivo di un messaggio. È Matteo Salvini. Precisa, «solo per amor di verità», con una nota firmata Lega, che «al momento non è in agenda alcun viaggio» negli Stati Uniti, e quindi «non è previsto alcun incontro tra il vice premier ed Elon Musk». In effetti ci mancava svelare giusto questo. Un meeting con «Ilon», colui che la stampa amica ha dipinto per mesi come il fidanzato politico di Giorgia Meloni, proprio nel momento in cui tra la premier e il miliardario proprietario di Tesla sembra essere calato del freddo. Uno sfregio anche solo come ipotesi: ecco dunque di corsa la precisazione, subito, alle undici di una qualsiasi sera, infrasettimanale, di primavera, circa gli intendimenti del ministro dei Trasporti. Per amore di verità o meglio: per amore di stabilità. Ottimo esempio per dire a che punto siamo. Almeno darne un’idea.
Il fatto è che in mezzo al guado della legislatura, a due anni e mezzo dalle elezioni del 25 settembre 2022 e a due anni e cinque mesi dal giuramento del 22 ottobre 2022, il governo è a un punto di stallo, sprofondato nel- le sabbie mobili come mai s’era visto fino a questo momento. Per quanto non sia nell’aria una crisi di governo, ce ne sono paradossalmente tutti gli ingredienti. Sembra un mosaico sul punto di esplodere per assenza di obiettivi. Una campagna elettorale in assenza di elezioni. Una lotta politica altalenante, ad andamento bi- polare, e non è mai un buon segno: un giorno volano le bordate, il giorno dopo si nega l’evidenza e qualsiasi screzio interno alla maggioranza, il giorno appresso ricominciano i bisticci per interposta persona. Per di più, nel giro di una settimana sono comparse varie espressioni che mai era- no affiorate: dentro e fuori Palazzo Chigi hanno cominciato a rimbombare le paro- le «controcanto» e «stillicidio quotidiano», poi si sono aggiunte le parole, più generiche ma più pericolose, «chiarimento» e «verifica». Puro lessico di un centrodestra in spencolamento sull’abisso, a giudicarlo col metro chirurgico del linguaggio politico: sono gli stessi termini che si utilizzavano ai tempi di Silvio Berlusconi e del sottogoverno Fini-Follini, anche loro vicepremier e capi di partiti lontani fra loro (An e Udc). Manovre che partono per eccesso di stasi. Segnali che dicono quanto il governo di Giorgia Meloni, nato per essere la risposta evolutiva di quel mondo, gli stia per questo lato sempre più somigliando. Con una differenza: in Berlusconi dominava l’auto-blindatura impunita, in Meloni domina l’incertezza feroce e grigia. Per usare il lessico di un tempo: laddove in Berlusconi erano «nani e ballerine», in Meloni danzano «sangue e merda».
Certo, cambiano i dettagli. Stavolta a sfiorare il rischio «lite delle comari», giocata però in questo caso tutta nel Lazio meridionale, tra Ferentino e Latina, sono il capo di Forza Italia Antonio Tajani e il leghista Claudio Durigon. Uno dice: «La politica estera la faccio io, non i partiti», sarebbe del resto il ministro degli Esteri, mica Cenerentola. L’altro, dopo la telefonata tra Vance e Salvini, lo trafigge: «Il ministro si faccia aiutare da noi nei rapporti con gli Usa, sarebbe utile». E il capo di Forza Italia, dal palco dei giovani: «Ci sono partiti seri, che studiano, e partiti po- pulisti quaquaraquà». Quaquaraquà non s’era mai sentito in tutta la seconda Repubblica. E nemmeno Pirgopolinice: «Nel Miles Gloriosus c’era questo generale, Pirgopolinice, che urlava sempre. A un certo punto gli chiesero: ma se comandi perché strilli? Chi strilla vuol dire che conta poco». Chi è oggi questo generale che strilla? Giura Matteo Salvini che i «rapporti con Tajani sono splendidi» (era il giorno del neghiamo l’evidenza), ma si sa che, da quando negli Stati Uniti ha vinto Trump, il capo leghista ha cambiato ambizioni: nel gioco della sedia del governo – lui che in realtà avrebbe i Trasporti - è passato dal mimare il capo del Viminale al mimare il capo della Farnesina. Ma – anche se per la verità come tipi umani non sembrano tanto distanti – Tajani non è Piantedosi, né si intende lo diventi. «È che Salvini vuole occupare tutto lo spazio a destra di Meloni, mi sono ritrovato con Afd e Orbán, è troppo», ha infatti segnalato il deputato Davide Bellomo, passando guarda caso proprio in questi giorni dalla Lega a FI, e rompendo così il patto non scritto tra partiti alleati di non rubarsi parlamentari.
Il fatto è che mentre Salvini gira come un forsennato l’Italia e l’Europa – c’è il congresso leghista il 5 aprile a Firenze, a Palazzo Chigi circola l’audace speranza che dopo rallenti – tra un incontro con Le Pen e Bardella, la telefonata con Vance, la statuetta di bronzo (premio Hunyadi János) consegnatagli da Orbán per la «difesa incrollabile dell’Europa» e per aver «combattuto con coraggio contro l’invasione di migranti illegali via mare», dall’altra parte Tajani fa sapere di aver avuto un lungo incontro con il commissario Ue ai partenariati Jozef Síkela, di contribuire come Italia «alla strategia Global Gateway anche attraverso il corridoio di Lobito e l’iniziativa sul caffè», di avere l’appoggio di Paolo Berlusconi («Tajani si sta comportando molto bene»), di avere come FI eletto altri due segretari comunali nelle Marche. E in tutto questo iperattivismo, quella che salta agli occhi è proprio a difficoltà di movimento di Giorgia Meloni. Senza una statuetta, un risultato, una visione da sventolare.
Lo si vede in controluce anche nella posizione internazionale dell’Italia. Più di un diplomatico in questi giorni, ma per la verità anche nelle scorse settimane, si è infatti definito «confuso». E anche senza essere ambasciatori, al netto del “viva Trump” con il quale la premier ha salutato l’inizio dei negoziati con la Russia, non è facile capire quale sia la posizione di Meloni su dazi, alleanze, Europa. Per barcamenarsi, partecipa alle riunioni dei volenterosi volute da Macron e Starmer ma, per coprirsi a destra, lo fa nelle maniere più varie: una vol- ta viene ma si mette dietro, un’altra non viene ma poi si collega da remoto. Sempre stretta tra il Salvini contrario a Ursula e il Tajani europeista, tra la Lega secondo la quale lei non ha il mandato per trattare sul ReArm eu, e FI secondo il quale ce l’ha. Si capisce per- ché la premier ripieghi su Ventotene.
E infatti, dopo aver riempito il dibattito della scorsa settimana appunto col Manifesto di Spinelli, Rossi e Colorni, la premier si è buttata di nuovo sui migranti, il tema che insieme con l’atlantismo le è valso l’ingresso a Palazzo Chigi. Anticipato il Consiglio dei ministri, si è messa su un nuovo decreto che serva a sbloccare i tutt’ora vuoti centri in Albania, riconvertendoli a luoghi di raccolta dei migranti da espellere (cosiddetti hotspot di ritorno) e non più di migranti di cui si deve ancora esaminare la posizione: se la mossa le riesce, dirà che l’Ue, che ha già inserito quel tipo di centri in Paesi terzi nelle nuove linee guida sull’immigrazione, sta seguendo l’esempio dell’Italia. È il suo modo di fare il sovranismo europeo, sperando che Trump si accorga degli sforzi e l’inviti ufficialmente, dopo il pomeriggio film+divano a Mar- a-Lago di inizio gennaio.
È un modo per provare a coprire l’ultima settimana prima del congresso della Lega. Giorni forsennati di appuntamenti sul territorio, ai quali peraltro Forza Italia ha op- posto una specie di controprogrammazione: ad esempio nel weekend il Carroccio sarà a Padova con i suoi governatori, men- tre gli azzurri saranno a Firenze per le tappe del congresso Ppe (gran finale a Roma all’Eur, sempre il 5 aprile, in concomitanza col congresso leghista, per dire dei rapporti splendidi). Sperando non si ingarbugli ancora la questione Veneto: regione prossima al voto che FdI reclama per sé dopo due mandati e mezzo, ma dalla quale la Lega non toglie gli occhi di dosso, con o senza Zaia. Anche qui l’appuntamento è vicino: il 9 aprile la Corte costituzionale dovrebbe decidere il destino della legge della Campania che apre al terzo mandato. Se la lascia passare, la primavera si farà frizzante.