Ufficialmente, Giorgia Meloni non ha dubbi: si ricandiderà nel 2027 per completare il programma del centrodestra. Lo ha detto chiaramente all’AdnKronos, rivendicando una linea di coerenza: «Ve lo avevamo promesso, lo abbiamo fatto». Dichiarazioni nette, in perfetto stile Meloni. Eppure, nel cerchio ristretto che la circonda, il calendario politico assume contorni più sfumati, e le date si intrecciano con ambizioni che vanno ben oltre Palazzo Chigi.
Fonti parlamentari raccontano di un ragionamento che, pur non formalizzato, viene ripetuto sempre più spesso nei salotti riservati di via della Scrofa: la vera svolta potrebbe arrivare non nel 2027, ma due anni dopo, nel 2029, quando si concluderà il secondo mandato di Sergio Mattarella. Proprio lì, a 52 anni, Meloni potrebbe tentare l’impresa che nessuna donna ha mai osato: salire al Quirinale. «Non è una questione di età anagrafica – sussurra un deputato meloniano – ma di maturità politica. E lei, in questi anni, si è costruita una credibilità internazionale che pochi possono vantare».
Un disegno ambizioso, certo, ma che parte da un presupposto fondamentale: centrare un secondo mandato nel 2027 (o anche prima, perché nessuno a via della Scrofa si sente di escludere che ci possono essere le elezioni anticipate nel 2026), consolidare la posizione di Fratelli d’Italia come perno della coalizione e, se necessario, “traghettare” il governo fino al passaggio di consegne. A chi? Non è un mistero che dentro la maggioranza si stia già ragionando su un possibile “erede di sistema”, che non turbi gli equilibri di potere ma garantisca continuità.
Il piano, però, non è blindato. L'incognita più grande riguarda Mattarella: se decidesse di lasciare prima del 2029, come fece Napolitano, l’intero impianto crollerebbe. Un vero e proprio contropiede. «Un’elezione anticipata per il Colle taglierebbe fuori Giorgia», spiega un senatore di lungo corso. Ma Meloni ormai ci ha preso gusto. Il traguardo finale forse non è più solo governare. È entrare nella storia.
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A brevissimo, salvo sorprese, ci sarà il D-day di Roberto Vannacci. Il consiglio federale della Lega dovrebbe sancire la sua nomina a vicesegretario federale, accanto a Matteo Salvini. Un passaggio formale, certo. Ma che dentro il partito assume il sapore di una svolta epocale. Perché se Vannacci irrompe ai vertici della Lega, il partito cambia pelle.
In via Bellerio e nei palazzi regionali di Milano e Venezia, l’annuncio è atteso con una certa tensione. Nessuno si oppone apertamente, per ora. Ma dietro le quinte il malcontento è palpabile. «Non è la nostra storia, non è il nostro linguaggio», si lascia scappare un dirigente lombardo di lungo corso. Perché Vannacci ha il suo piano e non lo nasconde: «Vannaccizzazione della Lega», lo chiama con disarmante franchezza. Un progetto di trasformazione, di linguaggio e identità. Molti temono che, una volta aperta la porta, sarà difficile fermarlo. «Ha un seguito reale ma è ingestibile», avverte un europarlamentare leghista. E se Vannacci volesse candidarsi a leader? Nessuno, per ora, osa dirlo. Ma in molti iniziano a pensarlo.