La presidente del Consiglio prepara il mitra

Altro che pacifismo da salotto. Giorgia Meloni fa melina, ma intanto tiene la cartuccia in canna. L’ultima volta che ne ha parlato coi suoi vice – Salvini & Tajani, spettatori più che protagonisti – la premier ha tagliato corto: «Ne riparliamo il 26 giugno». Il giorno dopo il vertice Nato all’Aja. Casualità? Macché. Strategia purissima. Perché solo allora si capirà dove va l’asticella del riarmo made in Washington. Il 2 per cento è storia vecchia. Trump sogna il 5. Si chiuderà al 4? Probabile. Ma a quel punto per Palazzo Chigi inizierà la vera salita: far quadrare i conti pubblici col mitra in mano.

 

Il Tesoro è nervoso. Giorgetti ha già detto no alla clausola di flessibilità europea, il famoso “ReArm” scorporabile dal deficit. Troppo rischioso: dopo quattro anni l’ombrello sparisce e resta il temporale del debito. Ma Meloni – raccontano fonti diplomatiche con l'accento transatlantico – non ha ancora detto l’ultima parola. Anzi. Ha già fatto sapere a Trump (e pure a zia Ursula) che l’Italia ci sarà. Con buona pace dei “pacifisti all’italiana” e dei mal di pancia di Salvini, sempre più fuori dai radar quando si parla di cose serie. Perché quando c'è da prendere le decisioni che contano Giorgia Meloni vuole essere lei e soltanto lei a decidere.

 

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Che la geopolitica sia diventata una soap opera con colpi di scena degni di “Beautiful” lo sapevamo. Ma ora spunta un retroscena degno di una spy story. Secondo fonti dei servizi di intelligence internazionali (quelli che parlano solo a mezza voce ma sanno tutto), il Qatar avrebbe soffiato sul fuoco delle proteste nelle università americane. Obiettivo? Non il solito caos da salotto radical chic, ma spianare la strada a Donald Trump per una stretta autoritaria sul mondo accademico a stelle e strisce.

 

Un «gioco delle parti ben orchestrato», dicono le talpe ben inserite nei circuiti diplomatici, in cui l’Emiro fornisce il casus belli e The Donald incassa, mettendo nel mirino la cultura woke, da lui ritenuta una minaccia peggiore dell’inflazione. E mentre nei campus si levano cori e bandiere, e i talk show si riempiono di analisti e indignati professionisti, ecco il regalone finale: un Boeing 747-8, ex della famiglia reale del Qatar, pronto a diventare l’Air Force One di Trump 2.0. Per poi atterrare, alla fine del mandato, nella sua faraonica biblioteca presidenziale: più che un’istituzione, un monumento all’ego.

 

Ma attenzione, perché non tutti i repubblicani applaudono. Mike Pence, l’ex vice diventato coscienza critica del presidente, lo ha detto chiaro in un’intervista a tinte fosche: «Il Qatar gioca su entrambi i fronti. Sostengono Hamas e Al Qaeda. Accettare quell’aereo è incoerente con la nostra sicurezza».

 

Tradotto: mentre Trump sogna di solcare i cieli americani con un jet d’oro (magari tappezzato di moquette rossa e foto di sé stesso), c'è chi teme che dietro le quinte si stia firmando un patto diabolico tra petrolio, potere e propaganda.

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