Silenzio. Un silenzio che pesa come piombo. Nessuna richiesta formale da parte degli Stati Uniti. Nessuna telefonata. Nessuna nota diplomatica. Nulla. E da Palazzo Chigi trapela una linea chiara quanto sottile: “Meglio così. Speriamo che non arrivi.” Perché se Donald Trump decidesse di chiedere l’uso delle basi militari italiane per un’eventuale operazione contro l’Iran, il governo Meloni sarebbe costretto a passare per il Parlamento. E lì, dicono sottovoce fonti interne, “si aprirebbe una crepa difficile da controllare.” Il timore è reale, e serpeggia tra le stanze del potere: un voto sull’appoggio logistico a un’azione americana rischierebbe di spaccare la maggioranza, mettere in fibrillazione Forza Italia, mobilitare la Lega in chiave sovranista, e alimentare un’opposizione già pronta ad accusare il governo di “servilismo atlantico” al grido di "due pesi e due misure".
“Non possiamo permetterci una guerra americana né politicamente né militarmente,” sussurra una figura di vertice vicina alla premier. “Sarebbe un suicidio. Meglio restare fuori. Meglio che Trump si rivolga altrove.” Ufficialmente, Antonio Tajani glissa: “Nessuna richiesta”. Alla Difesa ripetono la stessa formula. Ma il nervosismo è reale. Il nome di Sigonella è tornato nei briefing riservati. Qualcuno a Palazzo Chigi ha già fatto arrivare il messaggio a Washington: l’Italia oggi non è in grado di reggere uno scontro di questo livello. Né a livello militare. Né sul piano interno. Per ora, tutto è fermo. Ma basterebbe una telefonata da Washington. E il castello comincerebbe a tremare.