S’è avvicinato al sindacato, tra i metalmeccanici, nell’epoca in cui la lotta alla violenza fascista e al terrorismo ne rappresentavano un tratto saliente. Perciò, quando dice che «oggi il lavoro è soffocato da un livello di precarietà inedito e inaccettabile», significa che s’è davvero toccato il fondo. Un fondo da cui si può cominciare a risalire anche grazie ai referendum dell’8 e del 9 giugno prossimi. Ne è convinto Maurizio Landini, 63 anni, segretario generale della Cgil. Da un paio di mesi macina chilometri per fare campagna. Dalla Lombardia alla Sicilia, dalla Capitale alle città di provincia. «Bisogna ridare il futuro ai giovani. E io sento questa responsabilità sia per il ruolo che ricopro sia dal punto di vista personale, perché appartengo a una generazione che ha goduto di diritti conquistati in precedenza e che non vuole lasciare in eredità solo incertezza».
È l’unico accenno a sé, con buona pace dei detrattori che lo tacciano di protagonismo. Per Landini, ogni sforzo ora converge sull’obiettivo d’informare e convincere a votare sì ai cinque quesiti. La Cgil ha promosso i quattro sul lavoro (che mirano a eliminare i limiti a reintegro e indennizzo per i licenziamenti illegittimi, a rendere più stringenti le motivazioni per i contratti a tempo determinato, a estendere gli obblighi in materia di sicurezza alle aziende appaltanti) e sostiene il quinto, volto a dimezzare il periodo di residenza necessario per chiedere la cittadinanza italiana. La sfida, appunto, è agguantare il quorum della metà più uno degli elettori: «È un traguardo possibile – rassicura lui – non ci accontentiamo di partecipare, ci impegniamo per vincere. Non si tratta di scegliere un partito o un candidato, ma di concentrarsi sui temi e di agire per il bene di ciascuno».
Perché lavoro e cittadinanza sono pilastri che reggono le garanzie sociali e civili. «I referendum rimettono al centro questioni fondamentali, troppo a lungo derubricate. C’è un nesso stretto tra le condizioni del lavoro e la salute della democrazia. Analizzando l’astensionismo nel nostro Paese e in vari Stati occidentali, emerge che a rinunciare al voto spesso è chi sta peggio. L’attuale crisi è frutto, a cascata, del trionfo delle oligarchie, del crollo della partecipazione e della minore consapevolezza. Così si perdono i diritti, che non sono mai concessioni dall’alto. Ebbene: se si raggiungerà il quorum e se passerà il sì, dal giorno successivo lavoratrici e lavoratori ne otterranno di più. Sarà chiaro come la maggioranza reale della popolazione esiga che governo e Parlamento cambino alla radice politiche e leggi per assicurare dignità, stabilità, sicurezza. Del pari, la cittadinanza smetterà di essere una chimera per molti. La mattina dopo, insomma, ci sveglieremo migliori».

Il nemico, dunque, è il disinteresse. Sintomo, per Landini, del malessere che non ha trovato ascolto né soluzioni. «Nelle ultime settimane, ovunque, ho visto piazze riempirsi di gente per discutere: una cosa a cui si era disabituati. Ho incontrato lavoratori, lavoratrici, pensionati, pensionate, studenti, studentesse. Dalla fatica ad arrivare a fine mese al disastro della sanità, sino all’emigrazione tanto dal Sud quanto dal Nord: i problemi sono comuni. Chiunque li sperimenta sulla propria pelle o attraverso le vicende di parenti e amici. Noi diamo voce ai rassegnati e rispondono soprattutto i giovani, ma pure persone di età o estrazione diverse, compresi imprenditori e partite Iva». Con la conoscenza, cresce l’adesione: «Il dibattito si sta ravvivando, anche sui media, nonostante il silenzio della tv pubblica certificato dal Garante delle comunicazioni. Poi c’è l’invito a disertare le urne proveniente persino da certi ministri e dal presidente del Senato. Mi pare, però, che abbiano suscitato notevole indignazione; ecco che accade quando s’intima di stare zitti…».
Tra le file di economisti e partiti, intanto, alcuni guardano al merito dei quesiti e temono che – abrogando l’intelaiatura del Jobs Act – s’imbriglino le imprese, specialmente piccole, e si disincentivi la nascita di startup. «Se licenziare in modo illegittimo è ciò che consente loro di esistere, allora queste realtà sono ridotte assai male», punge il numero uno della Cgil: «Adesso, qualora un giudice dichiari infondata l’interruzione del rapporto, a un dipendente possono essere riconosciute, al più, sei mensilità come risarcimento. Di fatto, per evitare lungaggini e costi di una causa, i lavoratori finiscono per accettare accordi penalizzanti, da due o tre mensilità. Si prova un enorme senso d’impotenza di fronte a tale ingiustizia. Togliendo il tetto, sarà il giudice a stabilire l’indennizzo caso per caso, alla luce di fattori come capacità economica dell’azienda, carichi familiari ed età della persona coinvolta».
Riguardo al reintegro, si paventano vuoti o disparità di tutela che si creerebbero con il ritorno dal Jobs Act all’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: «La tesi è mistificatoria. Il secondo prevede come regola il reinserimento nel posto di lavoro, mentre il primo tende soltanto a monetizzare il danno subìto da chi viene licenziato senza validi motivi; nonostante gli interventi della Corte costituzionale, il più delle volte, continua a impedire il reintegro per gli assunti a partire dalla sua entrata in vigore nel 2015. Il che ingigantisce la subalternità e la soggezione del dipendente nei confronti del datore di lavoro. Pur non ravvisando profili d’incostituzionalità, la stessa Consulta ha sottolineato come quella riforma abbia allentato la difesa dai licenziamenti ingiustificati rispetto all’articolo 18».
Per qualcuno, inoltre, a proposito degli infortuni si rischia di addossare alle imprese appaltanti circostanze fuori dal loro controllo. «Riflettiamo sulla vergogna della catena dei subappalti, dove l’azienda capofila delega opere a un’altra, questa a un’altra ancora e così via, nella totale deresponsabilizzazione», ribatte Landini. «Rfi, Enel, Eni, Esselunga: le più recenti stragi sul lavoro sono avvenute in filiere simili, che risalivano a società di grandi dimensioni o partecipate dallo Stato. E lì si sono registrati 700 sui 1.077 incidenti mortali del 2024. Agricoltura, edilizia, logistica, manutenzione di fabbriche e strade sono settori in cui si muore, all’insegna del massimo ribasso, per formazione inadeguata, assenza di dispositivi di protezione, uso di attrezzature obsolete, organizzazione sbagliata. Possiamo permettere che i committenti non ne rendano conto, considerato che decidono di strutturare la loro attività in tali forme per ritagliarsi maggiori profitti? Possiamo rimanere fermi con mezzo milione di denunce d’infortunio l’anno? Nessuno è esente dal dovere di preservare l’incolumità di lavoratori e lavoratrici».
I referendum, quindi, intendono superare ricette fallimentari. «Il mantra della flessibilità e del liberismo ci accompagna dalla fine degli anni Novanta. È diventato egemonia culturale, modello imprenditoriale, politica industriale. Imponendo una narrazione per cui, messe in condizione di riorganizzarsi senza vincoli contrattuali, le imprese sarebbero sbocciate. È successo il contrario: l’Italia non cresce, il tessuto produttivo si sta erodendo e sempre più giovani, magari eccellenze uscite dalle nostre università, vanno all’estero per assecondare le loro sacrosante aspirazioni. È stata una deregulation che ha contribuito all’impoverimento dell’intero Paese». Una logica del mercato fine a sé stesso, cioè: «La ricchezza è prodotta da chi lavora, ma è distribuita altrove».

Svalorizzato, il lavoro diviene tossico per il corpo e per la mente. «Le nuove generazioni sono più preparate e sensibili, per esempio sulla sostenibilità, perciò iniziano a ridefinire le loro priorità. E non hanno torto. Il mondo del lavoro è polarizzato: c’è quello ben retribuito e qualificato, poi c’è l’opposto. Gli impieghi che davano sostentamento al ceto medio si stanno esaurendo e sorge un problema d’identità. Ragazze e ragazzi si scoprono disillusi; per i più scolarizzati, ripiegare su un mestiere di scarsa soddisfazione economica e professionale è frustrante. Vale la pena di sottostare a salari bassi, turni massacranti, insicurezza? I desideri restano irrealizzabili e sono guai per la collettività. In due decenni abbiamo perso oltre il 20 per cento dei giovani; gli under 35 sono calati di quasi 3,5 milioni e, di questo passo, altri ne perderemo. L’Italia, in picco demografico, invecchia drammaticamente».
Si profila il pericolo di essere esclusi dall’innovazione, perché «non ha senso contrapporre la qualità del lavoro e il progresso tecnologico; né si può affrontare la transizione energetica e digitale, con i relativi impatti sulla sfera lavorativa, senza diritti e tutele. Ripristinarli o ampliarli offre prospettive a tutto il Paese». Che, nella medesima ottica, ha necessità di gestire al meglio l’immigrazione: «Per due milioni e mezzo di persone che qui abitano, concorrono allo sviluppo e fanno nascere i loro figli e le loro figlie, accorciare il percorso di piena integrazione è una conquista decisiva. Negando la cittadinanza li si condanna alla marginalizzazione. Il quinto quesito vuole allinearci a importanti partner europei, che hanno capito come facilitare l’inclusione porti crescita».
L’insieme di ragioni ha spinto la Cgil a intraprendere la strada dei referendum, strumento che consente di correggere gli errori del Legislatore. Ma non sono mancate critiche. «S’insinua, al solito, che la nostra iniziativa preluderebbe a una mia candidatura. Smentisco con la coerenza – taglia corto il segretario – parliamo del futuro del Paese, non di destini personali». Il sindacato fa il sindacato, semmai la politica incappa in grosse lacune. Con il distacco tra realtà e Palazzo che scatena l’astensione.
«La mobilitazione spaventa i conservatori, che puntano a non mutare nulla, nemmeno davanti ai morti sul lavoro. Scoraggiare il voto, intimidire il pensiero libero, reprimere la protesta pacifica sono espressioni di un potere che non ammette di essere contestato. Per fortuna, richiamandosi alla Costituzione, il presidente della Repubblica ricorda che la partecipazione è base della democrazia. Che noi difendiamo praticandola, affinché torni a risolvere i problemi di chi deve lavorare per vivere. Riceviamo consensi trasversali, uniamo anime laiche e cattoliche. Per uno scopo condiviso». Quale? «Battersi per affermare la libertà nel lavoro e una nuova cultura che da esso riparta». Per Landini – che nel libro “Un’altra storia” (Piemme) racconta la sua esperienza – non è utopia: «È possibile, lo dico ai giovani. Ma uno da solo non riesce. Basta con l’individualismo, ricostruiamo la solidarietà».