Manfredi pacificatore riluttante: l’ingegnere sindaco di Napoli su cui puntano in tanti

Nel Pd dicono, per sminuirlo: «È un Draghi senza il carisma di Draghi». Ma non c’è troppo carisma (o presunto tale) in questo mondo dominato dagli ego? Oppure: «È un napoletano freddo, non scuote gli animi». Ma una città “calda” come Napoli non ha bisogno di un rappresentante che raffreddi? E in un mondo “caldo” dove ardono solo le polemiche e le braci dell’inimicizia sono eterne, non sarà alla fine un vantaggio, un elemento di rassicurazione? Il centrosinistra si affanna, con regolare cadenza, a cercare un Papa straniero, un esterno salvifico che sistema le cose, ma forse quel politico lo ha già in casa, non serve andare lontano o fuori. Il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, 61 anni, ingegnere, contiene molti elementi per diventare il federatore. Un nuovo Prodi. Un pacificatore riluttante. L’anello che lega Pd e 5 Stelle, Renzi e la sinistra, i mondi litigiosi del campo largo. Solo se sarà necessario, per carità. Manfredi non sgomita, anzi si sottrae. Accumula visibilità senza essere visibile, credibilità senza lisciare peli. Molti successi. Molte cariche e, in apparenza, non per smania di potere ma perché tanti pensano di poter essere ben rappresentati da lui.

 

Una sua recente intervista al Foglio descrive il suo Manifesto. Non tanto politico, ma di metodo. L’ingegnere Manfredi incasella sviluppi futuri come fossero una planimetria, prende le misure, costruisce scenari come se realizzasse una grande opera. Roberto Fico ha “i requisiti” per fare il governatore della Campania. Vincenzo De Luca, beh, può tornare a Salerno a fare l’imperatore del suo golfo. Lui stesso ha la strada segnata: «Mi ricandido a sindaco di Napoli, tra un anno». Fine. L’opera può essere consegnata. Sta in piedi.

 

Manfredi l’ingegnere civile lo ha fatto davvero. Tanti suoi colleghi coetanei lo conoscono perché si sono incontrati sul campo. Professore. Come Prodi. Ha fatto la carriera accademica (che è già un po’ politica) fino a diventare rettore della Federico II e in seguito presidente della conferenza dei rettori italiani. In quel mondo si tessono relazioni, si crea consenso, si garantiscono interessi. Poi, ministro tecnico dell’Università chiamato da Giuseppe Conte nel governo giallo-rosso. Incarico svolto in un periodo dominato dall’emergenza Covid. L’esperienza dura solo un anno prima di tornare a Napoli per preparare la candidatura a sindaco, successore di Luigi De Magistris. Il giorno e la notte. L’ex magistrato conduceva i masanielli indossando la bandana, al grido di «abbiamo spaccato» e si collegava in tv dall’ufficio di Palazzo San Giacomo che era un programma politico: la scrivania piena di statuine, foto, lucine, icone, modello presepe rivoluzionario in salsa sudamericana. La scrivania di Manfredi è diversa.

 

Mai stato in un talk show. Non frequenta i teatrini della tv. Gruber, Formigli, Floris, Berlinguer, men che meno i programmi nazional-popolari (populisti) di Rete4. Invisibile a questo pubblico. Ma le poltrone crescono. Sindaco di Napoli. Sindaco dell’area metropolitana (3 milioni di abitanti, 92 comuni). Presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani, così gira l’Italia e fa rete. Commissario della bonifica di Bagnoli e ora supercommissario (con 10 chilometri di costa in più). Ha portato a Napoli l’America’s Cup del 2027, evento planetario, una manifestazione sportiva che attira sponsor miliardari, migliaia di spettatori in presenza, centinaia di milioni di telespettatori collegati in tutti i fusi orari. Hanno scelto Napoli, i neozelandesi. Amano il folclore partenopeo ma devono anche contare su un’organizzazione perfetta come la tecnologia delle barche. Giorgia Meloni ha celebrato il successo italiano e affidato le chiavi di una vetrina mondiale che cade nell’anno delle elezioni politiche proprio a Manfredi, politico del Pd. In più Manfredi è il sindaco che ha accompagnato il Napoli alla vittoria di due scudetti, gli stessi che aveva vinto nei precedenti 100 anni di storia (l’anniversario cade nel 2026). Manfredi «tiene un mazzo come Porta Capuana» dicono in città. Il fattore C conta sempre.

 

Ha qualche gatta da pelare. Gli sgomberi alla Vele di Scampia e le scosse sismiche. È appena inciampato in un incidente abbastanza clamoroso. Nella sua città, Nola, paesone alle porte di Napoli, il Pd non ha saputo presentare né una lista né un’alleanza né un sindaco al  voto di tre settimane fa. E i nemici commentano: se non gestisce un centro di 35mila abitanti sarà adatto a gestire il centrosinistra? Domanda retorica. 

 

Manfredi è alto, sottile, non alza mai la voce. Non vederlo arrivare può succedere. Ha gestito male Nola, ma in maniera sorprendente due personaggi potenti e prepotenti, sovrani senza corona di Napoli e della Campania. Con Aurelio De Laurentiis, che guida il popolo dei tifosi, non perde la calma. Il presidente del Napoli, forte dei successi, chiede, polemizza, pretende dal Comune lo stadio Maradona e ristrutturarlo come dice lui. «Non rispondo mai agli attacchi – dice il sindaco – e a De Laurentiis ribatto sempre allo stesso modo: attendo il progetto». Il progetto vincola, costa, tiene le mani legate. De Laurentiis infatti non lo presenta mai. Manfredi aspetta. «È il mio nemico pubblico numero uno, un ingrato», dice di lui Vincenzo De Luca, il governatore abituato a non essere contraddetto, tantomeno a essere silurato. L’ingegnere è quello che lo sta accompagnando alla porta, non ha fermato il blocco al terzo mandato, non ha speso una parola in suo favore. Eppure, De Luca, facile all’insulto, dice ciuccio alla segretaria, ai parlamentari campani ma non una parola sul sindaco. 

 

Il Pantheon napoletano composto da Totò, Eduardo, Troisi, Pino Daniele e Maradona Manfredi lo rispetta e lo celebra. Senza retorica però. Preferisce guardare avanti: gli investimenti della Apple in città, la Coppa America, il debito ripianato. Incassa le asprezze di un totem della politica partenopea come Bassolino che non lo ama. Anche in quel caso guarda avanti. Sta nel presente. Sui referendum dell’8 e 9 giugno dice che bisogna assolutamente votare ma lui ha scelto: «Sul Jobs Act non si torna indietro». E fa felice Renzi e i riformisti del Pd. Di Gaza dice: «La sofferenza dei palestinesi è inaccettabile». E tiene un pezzo di sinistra.

Visti i veti reciproci tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein una figura terza può essere la soluzione. Con la segretaria del Pd erano partiti male ma il favore di neutralizzare De Luca è impagabile. In più il Partito democratico sopravvive quasi esclusivamente grazie ai sindaci, anche a livello nazionale. La percentuale bloccata intorno al 22-23 per cento (con l’eccezione del 40 per cento di Renzi nel 2014) è frutto in larghissima parte delle buone amministrazioni di sinistra. Da Nord a Sud. Un sindaco può diventare la strada obbligata della leadership.

 

Conte lo stima. Conte lo ha portato al governo nel 2020. Conte ha dato il suo via libera alla candidatura a sindaco nel 2021. Il leader dei 5 stelle non vuole che il leader di un altro partito guidi l’alternativa alla destra. Lo ha spiegato ai suoi amici del Pd: «Sia l’indicazione del premier sia la semplice dichiarazione che chi prende un voto in più va a Palazzo Chigi in caso di successo, traina il partito di chi viene indicato. Per noi è insostenibile». Ma se Fico raggiunge lo scranno di governatore diventerà il numero uno bis del Movimento visto che la Campania è l’unico grande bacino elettorale dei grillini. Una sua parola potrebbe spostare gli equilibri.

 

L’alternativa alla destra oggi è una pizza informe, salata o sciapa, troppo cotta o poco cotta a seconda dei momenti. C’è tempo per farne una buona, deve piacere a milioni di elettori. Alla fine comunque ci vuole la pummarola ‘n coppa, come cantava Pino Daniele. E se la pummarola fosse Manfredi? 

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