Politica
21 luglio, 2025Vicini al potere, avanzano in carriera nelle amministrazioni di provenienza
Che in Italia ci siano troppi dipendenti pubblici è una mezza bufala. Il loro numero continua a diminuire, tanto che siamo ormai in fondo alla classifica europea per il rapporto fra impiegati nella pubblica amministrazione e altri occupati. L’Istat dice che dal 15,4 per cento del 2001 quel rapporto è sceso oggi al 13,5 per cento, e il calo non si arresta. Tranne che in qualche anfratto dell’apparato.
Il ministero della Salute di Orazio Schillaci, per esempio, si appresterebbe a portare il personale degli «uffici di diretta collaborazione», cioè gli staff di ministri e sottosegretari, a 130 unità. C’è scritto nella bozza del decreto del presidente della Repubblica che fissa il nuovo regolamento di quegli «uffici», pubblicato dal Quotidiano sanità con la precisazione che prima erano 120. Appena?
Ma l’onda viene da lontano. Un anno e mezzo fa, prima di restare orfano di Gennaro Sangiuliano, il ministero della Cultura aveva portato lo staff a 100 persone. Imitando il ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, capace di innalzare per decreto il numero magico dei collaboratori da 75 a 100: grazie anche a un supplemento finanziario di un paio di milioncini l’anno.
E quando L’Espresso, a giugno del 2024, aveva pubblicato le spese sempre più sorprendenti degli staff ministeriali, il ministero della Giustizia aveva sentito il bisogno di spiegare pubblicamente che la somma di 51,9 milioni (11 milioni e mezzo in più rispetto all’anno precedente) comprendeva anche il fabbisogno dell’ispettorato composto da 145 persone. Ma pure quello dell’ufficio legislativo, dove ce ne sono altri 60 (sessanta?). Poi quelli che si occupano del mitico Pnrr: ancora 30 (trenta?). Il tutto con 80 (ottanta?) magistrati fuori ruolo. Cioè, se si spende di più un motivo c’è sempre.
Una precisazione lapalissiana adattabile anche al nuovo regolamento del ministero della Salute. Se lo staff si gonfia è perché si gonfia anche il dante causa. Al ministero ci sono ora un ministro, Schillaci, e un sottosegretario, Marcello Gemmato. Ebbene, secondo la bozza del dpr resa nota da Quotidiano sanità dovrebbe arrivare anche un viceministro. O meglio, secondo le voci non dovrebbe proprio arrivare, perché viceministro sarebbe promosso Gemmato. Con l’innesto di un nuovo sottosegretario nella persona di Andrea Costa per Noi Moderati, la quarta gambetta della maggioranza.
L’estate è il momento più propizio per queste iniziative. Il caldo aiuta a soffocare le inevitabili polemiche, e le ferie fanno il resto. L’ideale, per condurre in porto operazioni altrimenti assai rumorose, come la nomina alla guida dell’Aci di Antonino Geronimo La Russa, figlio del presidente del Senato. O l’invenzione di un nuovo sottosegretario alla presidenza con delega al Sud nella persona di Luigi Sbarra. È l’ex segretario generale della Cisl, il sindacato più morbido nei confronti del governo Meloni. Il che la dice lunga sull’attenzione per il Sud dell’esecutivo, nel quale nessuno di fatto si era ancora occupato.
Gemmato ha smentito l’ipotesi di ritrovarsi viceministro, ma i chiacchieroni insistono. Per non parlare dei maligni che non cessano di ricordare l’infortunio del sottosegretario: socio di un’azienda sanitaria, Therapia srl, che invitava sul sito internet a utilizzare i propri servizi privati per evitare le lungaggini della sanità pubblica.
Se però si considera l’evoluzione delle competenze del ministero della Salute, e nella fattispecie del sottosegretario Gemmato, farmacista di professione e per una scelta politica piuttosto singolare con delega ministeriale ai farmaci, è comprensibile la necessità di irrobustire il ponte di comando e il relativo staff.
Nei mesi scorsi il ministero ha emanato una direttiva che consente l’impiego di un antivirale destinato agli esseri umani per curare i gatti affetti da fip, la peritonite infettiva felina. «D’ora in poi anche i veterinari potranno prescrivere il farmaco a esclusivo uso umano utilizzato per il trattamento del Covid 19. Basterà presentare la ricetta elettronica veterinaria per acquistare il farmaco salvavita», informa un servizio del Tg1 andato in onda un annetto fa. Corredato con una dichiarazione del sottosegretario («politico, farmacista, marito, padre di due gemelle e custode di un gatto», dice il suo profilo su Istagram): «La fip causa il 96 per cento di mortalità dei gatti che la contraggono. Il Remdesivir per uso veterinario offre un’alternativa farmacologica per salvarli».
Encomiabile, un ministero della Salute che si occupa anche della salute dei felini. Servirà forse ad alleviare il travaglio di molti loro proprietari, alle prese con l’enorme problema irrisolto delle liste d’attesa chilometriche e con una sanità pubblica in difficoltà sempre più gravi che costringe i contribuenti a migrare verso il privato. Secondo un sondaggio Doxa elaborato per Assalco, almeno il 22 per cento delle famiglie italiane, compresa evidentemente quella del sottosegretario, ha un gatto.
Ma forse anche quella direttiva è un altro sintomo di un sistema letteralmente alla deriva. Dove la gestione del potere e del consenso ormai fa premio su tutto il resto. E gli staff dei ministeri ne sono lo specchio, obesi fino all’inverosimile e nei quali talvolta non mancano le figure chiave, emanazione diretta di chi nel governo comanda davvero. A capo della segreteria del ministro Schillaci, già rettore dell’università Tor Vergata senza un riferimento politico univoco nell’attuale maggioranza, c’è per esempio la potentissima Rita di Quinzio. Che ha meritato anche un posto nel consiglio di amministrazione di Sport e Salute guidato da Marco Mezzaroma, grande amico delle sorelle Giorgia e Arianna Meloni.
Ma il loro rapporto con Rita Di Quinzio, come del resto con il sottosegretario Gemmato, è più che una semplice amicizia. Legame forte è una lunga militanza politica. Cementata anche negli uffici pubblici. Prima di laurearsi, informa il curriculum, l’attuale capo segreteria di Schillaci lavora all’Alleanza sportiva italiana, associazione nata dal Centro nazionale Fiamma dell’Msi di Pino Romualdi poi diventata l’Asi oggi guidata dal sottosegretario ex missino Claudio Barbaro. Quindi entra al Comune di Roma, e quasi subito passa in comando al Consiglio regionale del Lazio, dove Arianna Meloni lavora con contratti a tempo determinato nella segreteria del gruppo di An e poi di Fratelli d’Italia. L’affinità è profonda, dice chi conosce bene la loro storia.
Nel 2021 Rita Di Quinzio è alla segreteria generale del Consiglio, mentre Arianna Meloni diventa responsabile della segreteria della presidente di una commissione, consigliera regionale di Fdi. Si chiama Chiara Colosimo, è un pezzo da Novanta del mondo meloniano e da lì a un anno sarà la nuova presidente della commissione parlamentare Antimafia per investitura diretta di Giorgia (e Arianna? Boh…). Suo braccio destro a palazzo San Macuto è Nicoletta Pimpinella, collega in consiglio regionale di Rita Di Quinzio. La conquista del potere da parte della loro destra ha aperto a entrambe nuovi scenari. Che però possono essere anche ulteriormente allargati.
L’occasione è un concorso per sette funzionari esperti, riservato al personale di ruolo del Consiglio regionale, che profila un non trascurabile futuro avanzamento di carriera e di stipendio. In quel momento Di Quinzio e Pimpinella sono distaccate altrove: la prima al ministero della Salute, la seconda all’Antimafia. Mentre è ovvio che il concorso è destinato al personale in servizio, perché poi dovrebbe assumere negli uffici regionali le funzioni previste dalla promozione. Ma tant’è. Entrambe partecipano ed entrambe risultano vincitrici. Rita Di Quinzio è prima, Nicoletta Pimpinella seconda. È agosto del 2024. Nel gran caldo qualcuno storce il naso, inutilmente.
Il potere, diceva uno che la sapeva lunga, logora chi non ce l’ha.
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