Politica
24 luglio, 2025Il fallimento del bipolarismo. L’urgenza di recuperare elettori moderati. E di tagliare la spesa pubblica. Il deputato spiega l’addio a Renzi e la nascita dei liberdemocratici
Lei ha lasciato Italia Viva dopo anni di collaborazione con Matteo Renzi per fondare il Partito Liberaldemocratico. Cosa l’ha portata a questa rottura? Una questione personale, strategica o di linea politica?
«Unicamente politica. Un anno fa Italia Viva, partito convintamente terzopolista e che aveva l’obiettivo di rompere il bipolarismo, nel giro di una notte si è schierata con convinzione nel Campo Largo. Ma un partito non cambia linea in una notte con una dichiarazione del Segretario: così funzionano le proprietà private, non i partiti. Rimanendo in linea con le ragioni fondative di Italia Viva del 2019, io non credo che nell’attuale schieramento di centrosinistra ci sia nulla di utile per governare la fase difficile che il Paese sta affrontando».
Cosa significa concretamente rompere, superare il bipolarismo?
«In questi trent’anni di bipolarismo è cresciuta la sfiducia nei confronti della politica. La partecipazione al voto e la credibilità della politica sono scesi a livelli mai visti. In trent’anni siamo stati il Paese al mondo che ha registrato il tasso di crescita medio del Pil più basso. Un tema di cui non si parla abbastanza. Questo è successo perché noi all’indomani della sbornia di Tangentopoli ci siamo illusi di poter diventare un Paese anglosassone, dove c’è una cultura bipartitica. Solo che lì esiste da 250 anni, mentre da noi non è mai esistita e non si può sceglierla a tavolino. Finché il bipolarismo italiano competeva per conquistare l’elettore di centro, il sistema in qualche modo reggeva. Ma da una decina d’anni nei due schieramenti si compete sugli elettori estremi. Schlein e Conte gareggiano per conquistare l’elettore più di sinistra. Meloni, Salvini e Vannacci fanno a gara per quello più a destra. Ma in tutto il mondo i sistemi bipolari competono al centro e non sulle ali. Così si lascia un pezzo importante di Paese senza una vera rappresentanza politica».
Però il governo Meloni si vanta continuamente dei risultati economici raggiunti in questi primi tre anni di legislatura. Lei che valutazione ne dà?
«Meloni quando segue il copione populista e sovranista che ha portato Lega e Fratelli d’Italia nel decennio scorso a crescere nei consensi secondo me fa molto male. Qualche esempio? Quando riempie il decreto sicurezza di slogan senza effetti pratici, quando mette il golden power sulle banche italiane che si vogliono fondere, quando annulla le multe ai novax, quando protegge le corporazioni dell’economia italiana, secondo me fa male. Quando invece ha il coraggio di seguire un altro copione, quello del rigore sui conti pubblici, rigore sulle pensioni, la giustizia e la politica estera allora fa bene. Sono tutti fronti in cui il governo Meloni ha fatto il contrario del programma populista della campagna elettorale. Quindi di quale Meloni stiamo parlando? Della Meloni che ha preso il consenso nel decennio scorso con la postura populista? O della Meloni che quando è al governo segue – in parte – un’agenda diversa, e in quel caso fa bene? La politica italiana deve abbandonare l’abitudine di prendere il consenso vendendo slogan demagogici e facili illusioni per poi andare al governo e rendersi conto di non avere il mandato popolare per fare ciò che davvero serve al Paese».
Sulla questione dazi cosa pensa? L’Europa sta facendo bene? E l’Italia?
«L’Italia conta poco perché la politica commerciale è competenza esclusiva dell’Unione. L’opinione mia e del nostro partito è molto chiara. Dobbiamo continuare a trattare fino al primo agosto, anche se trattare con Trump credo sia un esercizio molto complicato. Non dobbiamo reagire con ulteriori dazi perché i dazi fanno male e quindi i contro-dazi fanno ancora peggio. Noi dobbiamo fare una cosa su cui l’Italia invece ha una grande responsabilità: approvare subito l’accordo di libero scambio con il Sud America, con l’area Mercosur. Il voto dell’Italia è decisivo nel Consiglio europeo. Al protezionismo si risponde col libero mercato e se non sarà possibile verso gli Stati Uniti creiamolo con altre aree del mondo che hanno centinaia di milioni di consumatori. Ogni volta che l’Europa ha firmato accordi di libero scambio l’export italiano è volato molto più della media dell'export europeo. Libero scambio come risposta al protezionismo di Trump».
Nel conflitto fra Israele e Palestina il Partito Liberaldemocratico come si pone?
«È una vicenda complessa e divisiva, nel nostro stesso partito convivono sensibilità diverse. Ma da Segretario non voglio ambiguità in politica estera. Io sono molto contrario alla politica del governo Netanyahu. Con la stessa franchezza dico che nelle guerre c’è un aggredito e un aggressore e in questo conflitto l’aggredito è sempre stato Israele, fin dal giorno della sua fondazione e poi altre con continuità nel corso dei decenni. E quando vieni aggredito reagisci e si crea un continuo scambio di violenza, atrocità e odio. Hamas ha avuto modo di governare Gaza nel 2005 dopo il ritiro israeliano: ma invece di costruire strade, scuole, ospedali, ha preso i soldi, ha scavato tunnel, ha comprato armi e continuato nel suo obiettivo di annientare Israele».
Sull'aumento delle spese militari nella Nato cosa pensa?
«La difesa è un bene pubblico, come la sicurezza. Questi beni sono obbligatoriamente forniti dal potere pubblico. Per 80 anni ci è stato fornito dagli Stati Uniti e noi l’abbiamo pagato solo in parte. Adesso che gli Stati Uniti non sono più disposti a farlo ce lo dobbiamo pagare da soli. Molto semplice».
Lei viene spesso identificato come un tecnico, un economista prestato alla politica. Quanto conta oggi la competenza nel dibattito politico e quanto invece la capacità di mobilitare identità e consenso?
«Tanti anni di populismo hanno portato non alla mobilitazione di identità e consenso, ma all’elogio della propaganda, del populismo e dell’ignoranza. Ora in politica non si cerca più la competenza. Certo non dobbiamo avere i professori col cravattino e la lavagna, perché la politica non è elitarismo. Il Partito liberaldemocratico cerca una via di mezzo, cioè cerca di portare i temi concreti come i tagli alla spesa pubblica, come si riforma la nostra economia, facendolo senza slogan facili, senza demagogia, senza populismo, ma in mezzo alla gente. La prima sede del partito l’abbiamo aperta a Lucera, in provincia di Foggia. Una delle prime cose che ho fatto è stata andare al mercato di Ballarò a Palermo a parlare di concorrenza nell’assegnazione degli stalli. Il liberalismo non è affare di élite, ma può parlare anche agli esclusi di questo Paese: e mostrare loro che l’occasione di riscatto non è lo Stato, ma il mercato».
Il Partito Democratico è stato la sua casa politica per anni. Crede che con la segretaria Schlein si sia definitivamente rotto ogni ponte o resta possibile una convergenza riformista?
«Il mio era il Pd di Veltroni che ebbe il coraggio di rompere con la sinistra radicale nel 2008 e prese il 33 per cento, che ebbe il coraggio di scrivere il discorso del Lingotto, uno dei discorsi più liberali che si sono fatti nella Seconda Repubblica. Oppure era il Pd di Renzi che ha fatto le riforme del lavoro, ha abbassato un po’ le tasse e provò a dire che sindacati e magistrati non hanno sempre ragione. Questo Pd è diventato un partito di sinistra massimalista che ha rinnegato tutte queste cose e quindi penso proprio che non ci sia nessuna possibilità di dialogo».
E invece con Forza Italia ci sono spazi per un dialogo, per costruire un progetto comune?
«Non finché Forza Italia sta in una coalizione che ha un’impostazione marcatamente sovranista e populista, impersonata in questo momento soprattutto della Lega. Se Forza Italia si decidesse a prendere atto che quella non è una coalizione liberale e che il bipolarismo in Italia ha fallito, allora forse potrebbero aprirsi scenari molto più interessanti».
Guardando alle prossime elezioni, quali sono i capisaldi programmatici su cui intendete costruire identità e consenso? Vi presenterete da soli o state già dialogando con altre forze politiche per costruire un’area riformista più ampia?
«Dico tre punti del nostro programma, che è molto più ampio: primo ridurre in cinque anni la spesa pubblica di almeno tre punti di Pil eliminando gli sprechi, da destinare integralmente alla riduzione della pressione fiscale, in particolare abolendo l’Irap e abbassando radicalmente l’Irpef. Parliamo di 66 miliardi su 1.200 miliardi. O noi fermiamo il treno impazzito della spesa pubblica o le tasse in questo Paese non potranno mai calare. Il secondo punto è una rivoluzione di concorrenza e liberalizzazioni in tutti i settori, dal commercio ai trasporti, dai servizi pubblici ai balneari e taxisti. Terzo punto avere un mix energetico fatto di energie rinnovabili e nucleare (subito, senza aspettare la quarta generazione), per azzerare le emissioni di CO2, eliminare la dipendenza dall’estero e ridurre il nostro enorme gap nel costo dell’energia. Queste tre cose Lei le sente dire da destra o da sinistra? No, io no. Ecco perché abbiamo fondato un nuovo partito».
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