Politica
2 settembre, 2025L’impatto dei dazi di Trump da un lato. La perdita del potere d’acquisto dall’altro. Il Parlamento si prepara a un autunno caldo
Questa volta, più di molte altre in passato, sarà la situazione economico-sociale a condizionare la politica d’autunno. Dopo un’estate che ha visto il Parlamento fermo per un mese, ai primi di settembre il ritorno alla quotidianità porta con sé problemi che – se nel frattempo non si sono aggravati – hanno certamente conservato una carica dirompente pronta a esplodere alla ripresa.
I dazi statunitensi al 15 per cento, sanciti dopo Ferragosto, riaprono la questione degli aiuti alle imprese italiane. Le risorse previste – per un ammontare di 25 miliardi di euro – secondo le previsioni più realistiche non sono sufficienti a soddisfare buona parte delle attese che arrivano dal mondo delle attività produttive; e si avvalgono di fondi non aggiuntivi ma derivanti dal Pnrr, che andrà perciò “rimodulato” – 14 miliardi – e dai fondi di coesione – 11 miliardi – come annunciato la scorsa primavera dal governo alle parti sociali, raccogliendo però un certo scetticismo. A distanza di mesi, e anche dopo la presentazione della lista definitiva dei dazi da parte di Washington e Bruxelles, il piano resta sempre quello, senza che siano stati fatti passi in avanti per la sua realizzazione. Anche perché occorre un’intesa con la Commissione Ue.

Quella dei dazi si preannuncia come un’emergenza da affrontare con tempestività davanti a una prevista contrazione del Pil italiano intorno allo 0,2 per cento e con un impatto direttamente sulle imprese nello stesso momento in cui la produzione industriale (dati Istat) è scesa dello 0,9 per cento rispetto allo scorso anno. L’altra questione che investe le responsabilità della politica è la perdita di potere d’acquisto delle famiglie: la polemica sui salari, divampata proprio alla vigilia di Ferragosto con un’intervista di Elly Schlein all’agenzia Adnkronos, ha innervosito l’intero centrodestra, come se la leader del Pd avesse toccato un nervo scoperto. Eppure le parole della segretaria del maggiore partito d’opposizione erano la riproposizione di cose già dette e anche di cose già fatte o tentate dalla stesso governo Melonicome il patto anti-inflazione, ha osservato Luciano Capone sul Foglio. La leader del Pd ha proposto «due interventi a costo zero»: il «salario minimo legale» e «scollegare il prezzo dell’energia da quello del gas» per alleggerire le bollette sia delle imprese sia delle famiglie. E poi, «un grande accordo con la Grande distribuzione organizzata» per stabilizzare i prezzi. «Solita fuffa e propaganda spicciola», ha risposto, da Fratelli d’Italia, Francesco Filini. «Bugie», per il forzista Maurizio Gasparri. «Provocazioni», per il leghista Massimiliano Romeo. Presa di distanza anche da Carlo Calenda, che allontanandosi sempre più dal campo largo-progressista ha definito «luoghi comuni» quelli di Schlein, pur avendo sottoscritto in altri tempi la proposta di legge dell’intero centrosinistra sul salario minimo.
I dati sono chiari. Per l’Ocse, i salari reali dell’Italia negli ultimi quattro anni sono crollati del 7,5 per cento, più di tutte le principali economie. La stessa Organizzazione prevede che nei prossimi due anni i salari nominali cresceranno ma meno degli altri Paesi, con l’inflazione che continuerà a divorare i salari reali. Rispetto al 2019 – ha certificato l’ultimo Rapporto Annuale dell’Istat – «il potere d’acquisto per dipendente» è inferiore del 10 per cento, però con un inizio di recupero sull’inflazione a partire dal 2023. Con questi dati, si capisce perché Matteo Salvini inviti gli alleati di governo a non accontentarsi del «massimo storico di gente che lavora», quando «gli stipendi non crescono come l’inflazione e il costo della vita».
Ma, per il governo Meloni, la strada da seguire non è quella del salario minimo garantito, sebbene si tratti di un provvedimento adottato da oltre 20 Paesi europei. In Italia, è stato rilanciato in Parlamento dalle opposizioni (tranne Italia Viva) l’ultima volta nell’ottobre 2024 come emendamento al ddl Lavoro. La proposta prevede che il minimo garantito sia di 9 euro lordi l’ora ma non è del tutto a costo zero, per la presenza di un Fondo di supporto che sostenga le imprese nella fase iniziale (almeno 300 milioni di euro). Di recente, il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani, per irrobustire le buste paga, ha invece proposto di detassare i contributi del lavoratore che guadagna fino a 9 euro l’ora (attualmente è prevista fino a 7,5) oppure gli straordinari, i festivi e i premi di produttività, riconoscendo però che le risorse disponibili potrebbero consentire quest’ultimo intervento solo nell’arco di un paio di anni. Per i prossimi mesi, in occasione della manovra 2026 che comincerà a vedere la luce fra settembre e ottobre, il progetto del governo – che sta a cuore a Fdi e a Fi – riguarda principalmente le tasse. Ma, per un intervento volto a ridurre l’Irpef dal 35 al 33 per cento sui redditi fino a 60 mila euro nella prossima manovra (di questo si parla) la copertura finanziaria ancora non c’è: il ministro Giancarlo Giorgetti, avvertendo che non esiste alcun “tesoretto”, è intenzionato a garantire la riduzione del deficit sotto il 3 per cento entro il 2025, in anticipo di un anno rispetto alla scadenza, dopo l’aumento delle entrate e il calo dello spread che non vanno utilizzati diversamente.
Da qui a dicembre, prima del via libera alla legge di bilancio, uno dei temi sarà quindi la “caccia” ai 4 miliardi (o poco meno) che occorrono per intervenire sull’Irpef. Specialmente, con le Regionali alle porte, promettere e non mantenere potrebbe costare caro.
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