Salute
27 novembre, 2025Oncologo ed ex ministro, il 28 novembre avrebbe compiuto 100 anni. Il ricordo di Maria Giovanna Luini che per 16 anni fu sua assistente nella direzione scientifica dello Ieo
La memoria restituisce principalmente le immagini, e alle immagini seguono le parole. In prossimità del centenario della nascita di Umberto Veronesi, di lui ritorna in modo particolare uno degli ultimi incontri nel suo studio in Direzione scientifica all’Istituto europeo di Oncologia. Parlammo di morte, la sua: diceva che con me riusciva a trattare argomenti che con altri non erano permessi.
Vista la sua età, aveva spesso la curiosità di immaginare cosa sarebbe accaduto dopo, quando il suo corpo e la sua mente sarebbero finiti. Incontrava ancora tanta gente, ma se tentava di approfondire l’argomento si sentiva rispondere di lasciare perdere perché sarebbe vissuto ancora a lungo. E lui non ci credeva. Penso che sentisse che gli anni a disposizione sarebbero stati pochi, e sperasse di tirare fuori pensieri ed emozioni con qualcuno disposto ad accoglierli.
Capiva le donne, le comprendeva in modo profondo: sapeva vedere le loro peculiarità e i moti silenziosi con cui gli esprimevano la paura e la speranza, i guizzi creativi e le disillusioni. Le capiva perché il suo interesse era vero, genuino: voleva sul serio che riuscissero a conoscere se stesse abbastanza da scegliere la migliore strada per realizzarsi e per stare bene.
Non alludo solo alla salute fisica: perseguì l’obiettivo della guarigione per chiunque incontrò, ma non serve che sia io a dirlo (si sa). Umberto Veronesi possedeva il dono speciale di leggere l’interiorità femminile e di fare emergere ciò che vivificava, il nucleo e il senso dell’esistenza di ognuna. Lo fece anche con me, mi chiese di promettergli che nella strada difficile che avevo intrapreso non avrei mai mollato.
Era sicuro che la mia ricerca della salute integrata della mente e del corpo e delle medicine ampie, non convenzionali, sarebbe stata difficile: sapeva che sarei stata ostacolata e non sarei stata compresa, ma mi incoraggiò a seguire l’istinto e l’ostinazione che in tanti anni aveva conosciuto. Era lo stesso per tutte le donne che avevano a che fare con lui, principalmente le sue pazienti: non si trattava solo di guarire il loro corpo, ma di aiutarle a scovare la risorsa speciale che le avrebbe aiutate a venire fuori dalle crisi, dai lutti, dai traumi, dalle malattie.
Diceva di sé che si sentiva “donna ad honorem”, e non scherzava: nessuno che lo conoscesse almeno un po’ ha mai pensato che fosse una definizione sbagliata. L’invenzione della quadrantectomia e l’intensa ricerca dei metodi di cura per la sconfitta dei tumori con un’attenzione quasi ossessiva alla qualità della vita sono state le dimostrazioni concrete di quanto tenesse al genere femminile e alla necessità assoluta di preservarne e potenziarne il contributo sociale. Era certo che il mondo sarebbe stato salvato dalle donne.
Quando una donna lo definì un “grande lucernario”, confondendo la parola “luminare”, la cosa lo divertì e gli piacque: amava la luce, desiderava per il suo dopo che qualcosa restasse. Deluso dalla brevità dell’esistenza che non gli aveva permesso di vedere la sconfitta della malattia del cancro, temeva che il lucernario non avrebbe lasciato traccia. E invece eccoci qui, caro Prof.: buon compleanno dei cento, anche se detestavi gli auguri. Nessuna di noi ti ha mai dimenticato.
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