Gode di grande considerazione e fiducia degli italiani ma la politica lo soffre. Ma soprattutto lo teme

«Vedo che voi guardate l’orologio, dunque vi ringrazio moltissimo per l’attenzione». Con il consueto aplomb e una vena di ironia tagliente, Mario Draghi si è rivolto così ai senatori nell’ultima sua apparizione a Palazzo Madama, un mese fa. Un modo elegante per dire che non ha dimenticato l’aria di insofferenza con cui fu accolto nei suoi ultimi giorni a Palazzo Chigi.

 

Eppure, oggi più che mai, in un’Italia che annaspa tra faticose coalizioni d’opposizione e populismi dominanti, Draghi resta lì: silenzioso, autorevole, intatto. Non ha mai manifestato l’intenzione di tornare in campo. E forse è proprio questo che alimenta il rispetto con cui molti italiani continuano a guardarlo. Lo considerano una riserva della Repubblica. Un patrimonio da custodire con discrezione, per le emergenze. Non un leader di partito. Non un uomo da comizi.

 

Tuttavia, c’è un paradosso che non può sfuggire. Secondo l’ultimo sondaggio YouTrend per Sky TG24, Draghi ha oggi la fiducia del 48 per cento degli italiani (secondo solo a Sergio Mattarella, ma nettamente davanti a Giorgia Meloni e a tutti gli altri). Tra gli elettori del Pd l’apprezzamento raggiunge addirittura l’80 per cento. In qualsiasi altro Paese europeo, un simile livello di consenso renderebbe naturale almeno discuterne come possibile guida politica. In Italia, invece, il suo nome non viene mai pronunciato.

 

Il contrasto tra il riconoscimento popolare e l’assenza di una proposta politica concreta è tanto più evidente se si considera che Draghi, in queste settimane, è tornato al centro della scena europea. L’unica proposta concreta sul suo nome arriva da Italia Viva, che lo vorrebbe inviato speciale dell’Ue per negoziare con gli Stati Uniti in materia di dazi. Un incarico tecnico, certo. Ma di alta rilevanza geopolitica. Il suo peso a Bruxelles e a Washington è noto. E, secondo un sondaggio Polling Europe del 2024, i cittadini europei considerano Draghi una figura più autorevole della stessa Ursula von der Leyen.

 

In Italia, però, il discorso è diverso. Mario Draghi rappresenta una presenza ingombrante, forse troppo autonoma, forse troppo autorevole, per essere assimilata dalle logiche della politica quotidiana. È il classico convitato di pietra: tutti ne conoscono il peso, pochi sono disposti a nominarlo. Ma perché? La risposta, in controluce, ha un nome e un cognome: Giuseppe Conte. Il presidente del Movimento 5 Stelle non ha mai superato lo strappo del 2021, quando fu sostituito da Draghi a Palazzo Chigi. Lui visse quella vicenda come un’umiliazione politica. Da qui un’avversione dichiarata, che condiziona ogni mossa tattica nel campo largo.

 

Elly Schlein lo sa. È convinta che un’alleanza con i Cinque Stelle sia l’unico schema oggi possibile per contendere il governo alla destra. E pensa che evocare Draghi significherebbe compromettere quell’intesa fragile. Così, tace.

 

In questo silenzio calcolato, Mario Draghi rimane ciò che è sempre stato: una figura estranea alla politica ordinaria, ma al tempo stesso decisiva nei momenti straordinari. Non chiede spazio, non fa campagna, non partecipa alle dinamiche di schieramento. Ma il suo nome è inevitabilmente presente in ogni ragionamento che riguardi il futuro dell’Italia. Proprio per questo il fatto che nessuno pensi seriamente di proporre Draghi come guida del centrosinistra – o di un fronte riformista più ampio – dice molto. Forse troppo. E non su Draghi. Ma su noi stessi.

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