Ci aveva provato, papa Francesco, a schierare la Chiesa su due fronti così insidiosi. Soprattutto, senza titubanze o ambiguità. Per la Chiesa cattolica romana il modo con cui aveva aperto le ostilità contro la corruzione e la mafia era senza precedenti. Poco più di un anno dopo la sua elezione ecco partire l’offensiva. Scatta dalla piana di Sibari, in Calabria, dove la criminalità organizzata opera da decenni senza particolari contrasti. E scatta durante una messa, il 21 giugno 2014. «La ’ndrangheta è adorazione del male e disprezzo del bene comune… I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati!», proclama il papa nell’omelia. Parole durissime, che lasciano di stucco anche qualcuno nella Curia. Forse perfino chi aveva ascoltato con sorpresa l’anatema contro i mafiosi lanciato da Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, ad Agrigento, il 9 maggio 1993: «Lo dico ai responsabili, convertitevi! Verrà il giudizio di Dio!».
Quello di Jorge Mario Bergoglio è un netto salto di qualità. Nella sua intemerata di 22 anni prima Karol Wojtyla non aveva parlato di scomunica. Sembrano finalmente il preludio perché la memoria di preti antimafia come Giuseppe Puglisi e Giuseppe Diana, assassinati dalla criminalità proprio dopo la minacciosa invocazione del papa polacco tanto da apparire come una violenta risposta alle sue parola, non venga più offesa. Nemmeno da certi sacerdoti che fanno passare le processioni religiose sotto le finestre delle case dei capi delle cosche per rendere omaggio al boss.

E sembra, qualche mese dopo, che anche la corruzione mondiale sia costretta anche a fare i conti con un nuovo e temibile nemico: il capo di una Chiesa cattolica che ha 1,4 miliardi di fedeli. Non parla a caso, Francesco. Sceglie tempi e luoghi precisi per i suoi messaggi. «La corruzione spuzza, la società corrotta puzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», dice Francesco nel quartiere napoletano di Scampia. Senza negare che il tumore della corruzione non abbia risparmiato neppure la Chiesa.
Passa però il tempo e i due dossier procedono a rilento. Va un po’ meglio per quello sulla corruzione. Prima esce un video del papa, che fa il giro del mondo per la gioia delle piattaforme internet. Poi Rizzoli pubblica un libro che si intitola “Corrosione”. Gli autori sono il cardinale ghanese Peter Turkson, cui il papa ha affidato il compito di gestire i due dossier, e il coordinatore delle relative iniziative Vittorio Alberti, filosofo e laico, che ha lavorato lungamente al progetto.
Nella prefazione a “Corrosione” Francesco definisce la corruzione un cancro da estirpare. Pare il segnale che si fa sul serio, ma è solo un’impressione. Più di tre anni sono trascorsi e ancora non succede nulla, a parte le esternazioni pubbliche del papa. Nel primo anno e mezzo da quando il fronte della corruzione è stato aperto, Francesco ha attaccato frontalmente la corruzione in 34 occasioni diverse. E il risultato di tutta la sua fatica è un documento di principio.
Quanto al dossier sulla scomunica ai mafiosi, è la paralisi. In Vaticano si discute soprattutto sulle difficoltà, che qualcuno giudica insormontabili, di dare una forma concreta nel diritto canonico a quella sorprendente uscita del papa. Su come fare si discute per anni, finché un bel giorno di maggio dl 2021 è di nuovo Francesco a smuovere acque troppo stagnanti, e questa volta non con una battuta consegnata ai giornalisti sull’aereo di ritorno. Il papa decide di proclamare beato il magistrato siciliano Rosario Livatino, assassinato dai mafiosi a 37 anni. Non bastasse, viene costituito un gruppo di lavoro incaricato di mettere nero su bianco una proposta concreta da presentare al papa. Sono in nove, e fra di loro c’è anche don Luigi Ciotti, fondatore di Libera: l’associazione che gestisce beni e terreni sequestrati alla mafia rendendoli produttivi. Ci sono l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi, il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho e il presidente del tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone, già capo della procura di Roma. C’è quindi l’ispiratore della fondazione antiusura don Marcello Cozzi, l’arcivescovo di Monreale Giuseppe Pennisi, fieramente antimafioso. C’è ovviamente il coordinatore Vittorio Alberti. C’è l’ispettore generale dei cappellani carcerari Raffaele Grimaldi e c’è l’esperto di diritto canonico Joan Alexandru Pop.
Ci siamo, pensano gli ottimisti. Il lavoro degli esperti dura settimane ma si materializza in un documento che dovrebbe risolvere tutti i problemi tecnico-giuridici e profila perfino le sanzioni a carico dei sacerdoti in combutta con i mafiosi. Intanto il papa, che ancora quel documento non l’ha fra le mani, insiste. A dicembre 2021 Francesco attacca per l’ennesima volta la criminalità organizzata, all’Angelus. Ma nonostante questo accade l’imprevedibile. Il cardinale Turkson si dimette. Non se ne conoscono le ragioni: si sa soltanto che il suo mandato quinquennale è terminato, e il suo posto viene consegnato a un gesuita come Jorge Mario Bergoglio. Si chiama Michael Czerny, è un ceco con cittadinanza canadese.
La sintonia con papa Bergoglio dovrebbe essere assoluta, ma per diciotto mesi sulla spinosa faccenda della scomunica agli «uomini d’onore» è nebbia totale. Squarciata a luglio 2023 dal quotidiano cattolicissimo francese La Croix, che rilancia una clamorosa indiscrezione. L’operazione scomunica ai mafiosi sarebbe stata insabbiata a Roma. Il famoso documento della commissione dei nove sulla scomunica ai mafiosi sarebbe pronto dalla fine del 2021. Ma non sarebbe mai stato consegnato al papa. Ignota la motivazione, ed è un fatto che la denuncia del giornale, solitamente ben informato sulle questioni vaticane, rimane senza alcuna reazione da Roma. La stilettata che arriva dalla Francia è seguita da un’altra ferita inferta dalla commissione episcopale tedesca. Che mentre a Roma tutto tace organizza a Berlino una grande conferenza «sull’azione della Chiesa di fronte alla criminalità organizzata». Uno smacco clamoroso.
L’unica ragione plausibile per cui il documento sia rimasto in frigorifero, quella che Francesco possa aver cambiato idea. Se non fosse un’eventualità impossibile da prendere in considerazione. Il 12 dicembre 2023 il papa spedisce un proprio intervento all’università Lumsa, dove si sta tenendo un evento commemorativo in occasione dei trent’anni dell’assassinio del sacerdote Giuseppe Puglisi, ammazzato da emissari di Cosa Nostra a Palermo nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. Puglisi è il primo beato dell’epoca Bergoglio. Il papa l’ha proclamato a maggio del 2013, un paio di mesi dopo la sua elezione. Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi, nel suo messaggio il papa sottolinea di nuovo una «totale inconciliabilità tra ogni organizzazione criminale, mafia, camorra o ’ndrangheta, e il Vangelo. E per non essere neppure minimamente equivocato, aggiunge che Puglisi è stato ucciso perché «voleva togliere la sua gente, soprattutto i giovani, dalle grinfie della mafia». Perciò «la Chiesa non si stancherà mai di ribadire con forza che coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati!». Scomunicati! Non ha fatto in tempo a vedere queste parole tradotte in realtà.