Uno scrittore e un cantante. Uno nato nel 1975, l’altro nel 1994. All’apparenza così diversi e invece a ben guardare complementari, speculari, insieme perfetti.
Non è questo un dialogo fra generazioni a confronto. Ma tra persone che si incontrano lì dove tutto «è rotto» e innominabile. Raccontano il dolore, o forse meglio la vita, così com’è. Fatta di stanze senza luce, di intimità, voli e passi incerti su sentieri a precipizio. Questo dialogo è un viaggio in un labirinto dove il filo ha la forma di “Un bene al mondo” di Andrea Bajani, che Feltrinelli ripubblica a distanza di sette anni e che Michele Bravi ha inserito nel suo tour “La geografia del buio” (dall’album certificato Disco d’oro) e letto in audiolibro su Storytel.
«Ci siamo incontrati sul silenzio», dirà Bajani durante questo colloquio che somiglia più a un minuetto di frasi a metà, pause, pensieri lunghi. Un concerto a due voci dove la risposta di uno chiude con la frase dell’altro, difficile da interrompere. Quello che colpisce in entrambi è lo sguardo. Chi ha provato un grande dolore nella propria vita lo riconosce. È come uno strappo negli occhi: l’orgoglio e la fatica di averlo affrontato, spesso la vergogna di non volerlo esibire. «Accarezzare il dolore», come fa il bambino nella storia di Bajani è un modo per attraversarlo, «togliersi la vergogna». Lasciarsi portare dove la vita ti porta per prendere finalmente «possesso del proprio nome».
“Un bene al mondo” viene ripubblicato. Cosa rappresenta questo libro per voi?
Andrea Bajani: «Non sapevo quello che facevo quando lo scrivevo, questo è già un indizio. Pensiamo sempre che “dobbiamo saper fare le cose” e poi ci rendiamo conto che, forse, nell’arte, meno sai fare meglio è. Meno hai il controllo e più sarai sbalordito di quello che hai trovato. Questo libro è nato da un fallimento. Da tempo provavo a dire di me, a scrivermi. Sono venute fuori delle poesie. Le avevo mandate all’editore che si aspettava un romanzo e in coda alla mail avevo scritto: non so esattamente cosa sono queste cose che vi mando, forse sono solo il tentativo di far alzare il culo dalla sedia al mio dolore. È stato come spalancare una porta magica. Subito dopo ho iniziato a scrivere. Su questo libro ho pianto ogni singola riga, credo che sia il più bagnato di lacrime che abbia scritto. Oggi mi rendo conto che grazie a questo libro mi sono tolto la vergogna. Togliersi la vergogna vuol dire uscire fuori e dire: sapete che c’è? Ho un dolore e ci faccio di tutto. Se non mi fossi tolto la vergogna -cosa che auguro a tutto il mondo- non avrei mai potuto più scrivere una riga e soprattutto non avrei mai potuto prendere possesso del mio nome. E poi questo libro cade in un’epoca diversa. Nel 2016 la confidenza pubblica con il dolore era una faccenda privata. All’epoca il dolore era come un alieno. Non si accettava. Oggi c’è stata un’esplosione di dolore devastante tra pandemia e guerra. Vivo negli Usa dove i campus sono pieni di studenti sotto antidepressivi, il dolore ha esondato. È fuori».
Michele Bravi: «“Un bene al mondo” ha la forza che solo le favole possono avere. La favola ha il pregio di farti percepire i mondi sottili, quelli che stanno sotto le superfici, ben nascosti. Per me è difficile pensare che quella è la storia di Andrea, quando la leggo è anche la mia storia. È stato fatto quel passaggio interiore per cui una cosa così particolare e specifica è diventata universale. E quando questo avviene con il linguaggio della favola, il racconto del mondo sottile è ancora più esatto: l’immagine di un dolore che si porta a spasso come un cane al guinzaglio. Per me, questo libro è stato uno spunto enorme quando scrivevo “La geografia del buio”. Racconta esattamente che cosa vuol dire trovare una geografia nelle cose. Il dolore ti aspetta sempre in un punto preciso. Ha un posto, una concretezza geografica e l’astrazione che viene fatta per me è di una poesia altissima. È una metafora talmente tanto grande, profonda che è letteratura: quando si riesce a lavorare ai bordi di una cicatrice e trasformare in poesia una cosa che altrimenti rimarrebbe indicibile. Infatti, ho legato questo libro anche alla mia produzione musicale. Involontariamente, parla di me».
A. B.: «Togliersi la vergogna riconnette al genere umano. Il mio non era solo un pianto personale. Era un pianto originario. È un po’ come se fosse una staffetta con passaggio di testimone. Come se ognuno avesse una piccola bandierina del dolore: se uno casca, l’altro la riprende e la porta avanti. Un po’ come ha fatto Michele con un gesto di grande umanità. È il canto dell’uomo che prova a dire quanto è difficile a volte vivere e quanto per questa stessa ragione è così bello, così spaventoso, così affascinante».
La scrittura è anche relazione. Per voi cosa altro rappresenta?
M.B.: «Premetto che quando ho iniziato a scrivere “La geografia del buio” per concretizzare una parentesi umana difficilissima, ricevetti un messaggio di Bajani: la musica non salva da niente, però ti permette di disegnare il labirinto. È stata una svolta nel modo di vivere la scrittura, nel mio caso musicale. Un atto di traduzione del reale. Non è più la vita vera, sono parole, sono inchiostro che si posano sulla pagina, quella cosa lì crea una mappa, io l’ho chiamata “La geografia del buio”. Questa mappa racconta un labirinto che non per forza porta alla via d’uscita però mette in evidenza e analizza un percorso. Per me questo vuol dire scrivere: dare un posto alle cose. C’è un libro stupendo che si chiama “Diario di un dolore” di C. S. Lewis, dove lui racconta quanto impatta la morte della moglie nella sua vita. Scrive cosa succede quando si elabora un lutto. E lui chiude il libro dicendo: «Con questo libro speravo di creare una mappa dell’afflizione». Leggendolo mi sono reso conto che quando si parla di dolore non si può raccontare uno stato, si deve raccontare un processo. Bisogna raccontare una storia. È questa la consapevolezza della scrittura: cristallizzare un momento per disegnare il labirinto».
A. B.: «Pensiamo sempre che il labirinto è il posto dove sta il Minotauro. Poi ci sono Teseo, Arianna, il filo. Ma forse bisogna capovolgere la prospettiva. Forse bisogna lasciare uscire fuori il Minotauro e non considerare tutto ciò che non conosciamo o fa paura come nemico. Scrivere vuol dire anche disegnare il labirinto per il Minotauro. Quando scrivo e rileggo quello che ho scritto rimango sempre un po’ sbalordito. Come se fossero le parole a dire a te che cosa stavi provando. La scrittura ha questa cosa magica: come se tu avessi qualcosa di liquido dentro e lei ti offrisse dei contenitori per vederlo, finalmente. Pensi di aver finito e invece qualcosa riprende a grattare dentro, quindi devi continuare a scrivere».
M.B.: «Tu, Andrea, mi avevi consigliato di leggere “Fisica della malinconia” di Georgi Gospodinov, che sfrutta la figura del Minotauro per far capire un po’ che cosa vuol dire “essere” scrittore, non “fare” lo scrittore. Una metafora stupenda sul Minotauro che riflette quanto effettivamente l’astrazione del reale sia più umana del reale stesso, perché serve una figura bestiale per raccontare l’umanità. Cioè secondo lui il Minotauro è la figura più umana mai nata dalla mente dell’uomo perché non è solo umano ma anche bestia. Chi scrive è come un Minotauro perché entra nel labirinto, chiama le altre persone, cattura le altre storie, le restituisce agli altri. No?»
A.B.: «Totalmente. Avevo suggerito a Michele questo libro perché parla di questa solitudine del Minotauro profonda. Cibarsi di umanità ma anche essere umanità. Pensiamo di sapere cosa vuol dire essere umani e invece siamo anche animali».
Ascoltandovi percepisco un filo rosso che vi unisce. Eppure, appartenete a due generazioni differenti. Tu Michele hai 24 anni, tu Andrea ne hai 47, però entrate subito in sintonia, quando parlate vi ritrovate sempre su un punto, avanzate e arretrate all’unisono. Vi siete mai chiesti perché?
A.B.: «Come in “Un bene al mondo”, a un certo punto le persone mettono in comune qualcosa di importante e non hanno paura. Io e Michele ci siamo trovati subito. Intorno a un tavolo ci siamo detti cose senza doverle dire a voce. Ci siamo incontrati lì dove c’era qualcosa di rotto. È stato come dirsi: incontriamoci dove c’è quella apertura di fragilità. Non importa l’età. C’è un termine negli Stati Uniti, “candor”. In Italia si traduce “candore” e viene declinato come un qualcosa di puro, ingenuo. In America invece è una via di mezzo tra la verità e l’essere schietti su sé stessi. C’è una poesia di Anne Carson intitolata “Candor”, parla del dire la verità su sé stessi. Il che non vuol dire la verità, però avere quell’atteggiamento di onestà sulle cose, ci siamo incontrati su quell’atteggiamento».
M.B.: «Lo diceva benissimo anche Wisława Szymborska: c’è solo una cosa che è uguale in tutte le lingue del mondo, ed è il silenzio. Ecco quando due artisti riescono a stare in silenzio insieme, allora è facilissimo scrivere, trasformare e poi rompere quel silenzio con le parole. Quando non si riesce a stare in silenzio insieme è impossibile».
A. B.: «Ci siamo incontrati sul silenzio. Ecco, io l’ho pensato e Michele l’ha declinato con la voce».
Abitiamo, arrediamo, spesso condividiamo le stanze delle nostre sofferenze. Attraversare il dolore costruisce anche la nostra identità?
M.B.: «“Lo straniero” di Albert Camus chiude con una riflessione sull’odio potentissima: “Perché tutto fosse consumato, perché mi sentissi meno solo, dovevo solo augurarmi che ci fossero molti spettatori il giorno della mia esecuzione, e che mi accogliessero con grida di odio”. Il dolore ti fa fare una domanda e tu accetti di non poter dare una risposta. Per me quelle parole hanno sempre avuto un significato personale e chiarificatore».
A.B.: «Il dolore, a differenza della cosiddetta felicità, ti fa aprire una domanda. Non ti chiedi perché sono così felice. Invece il dolore è quella porta d’accesso per chiederti le cose. Solo gli ottusi non provano dolore. Il dolore è quella cosa che ti fa pensare che è tutto più complicato, anche nominarsi. È la cosa fondamentale per chiederti: che cosa vuoi? Il punto di “Un bene al mondo” è che serve mettere in comune il dolore. Quando è solo tuo ti ammazza. Per questo uno si deve togliere la vergogna perché è enorme. Il dolore se crea comunità salva dalla condanna alla solitudine».