Nel luminoso, arieggiato mondo di “Big Little Lies”, Madeline, Celeste, Jane, Renata e Bonnie sono donne che sembrano avere tutto: amicizia, una famiglia solida, influenza sociale, denaro, libertà. Ma a grattare la superficie, emerge la verità di ogni esistenza, dove non tutto è ciò che sembra.
Il bestseller dell’autrice australiana Liane Moriarty, “Piccole grandi bugie”, (in Italia edito da Mondadori), da cui è tratta la nuova serie tv americana prodotta da HBO e dalla Blossom Films di Nicole Kidman, ora in onda su Sky Atlantic, era ambientato in Australia. Kidman, invece, che della serie è anche protagonista insieme a Reese Witherspoon, ha riambientato la storia in California, a Monterey. Ma tra ville, sole e american lifestyle la differenza non si vede.
«Il set è molto simile; d’altra parte è lo sfondo su cui Liane Moriarty ha cucito la sua storia ed è quello che illumina al meglio la psicologia delle protagoniste. Girando “Big Little Lies” sono rimasta profondamente colpita dalla dimensione universale di questo lungo racconto che va al fondo dell’anima delle donne».
Perché ha scelto proprio il libro di Liane Moriarty?
«Mi sono ritrovata elettrizzata sin dalla lettura delle prime pagine. È una narrativa avvincente e profonda, un binomio fuso in equilibrio perfetto. C’è il mistero, l’omicidio, e tutte le dinamiche di famiglie impeccabili e disfunzionali sono ispezionate al microscopio. Ne emerge la fotografia della donna occidentale di oggi, bella e struggente. “Big Little Lies” è un’esplorazione profonda dell’essere donna, della maternità, dell’amicizia femminile e delle declinazioni della complicità».
In “Big Little Lies” non c’è un personaggio dominante, tutte e cinque sono centrali. Un fatto non così comune al cinema.
«Sin dall’inizio non sono mancati i dubbi circa la fattibilità del progetto. Un racconto polifonico, stratificato, difficile per il cinema. Ecco perché il formato “serie” è sembrato il più praticabile. Alla fine è stata una scelta vincente».
“Big Little Lies” esplora anche temi come il bullismo e la violenza domestica. E lo fa non certo con toni ovattati. Quale reazione si aspetta da parte dei genitori?
«Ho quattro figli. Di certi temi, oggi, i bambini sono consapevoli più che mai. Il bullismo è una realtà pesante nelle scuole americane. Questo problema è quasi sempre legato a quello delle molestie, anche sessuali, e dello stalking, per fortuna taciuti sempre meno. Se ne parla in famiglia, ed è un bene. Poi la realtà è complicata: se, ad esempio, una madre ha un nuovo compagno, come reagirà il bambino? Avrà la stessa fiducia di prima? A chi si rivolgerà per primo se i due genitori sono lontani? Erano questi gli argomenti che intendevo indagare. Spero, e credo, che la serie contenga una forte, potente lezione, per il pubblico: quella di accettare le debolezze, anche di noi donne che tanto fatichiamo ad ammettere quando siamo giù. L’analisi della Moriarty è una delle più belle pagine di letteratura sulle donne contemporanea. Ed esalta la forza delle donne quando sono unite: è il modo che le donne hanno di proteggersi. Ma per cogliere questa dimensione femminile è necessario assaporare tutte e sette le ore del racconto».
Sappiamo che produrre film da romanzi è un’impresa che le piace. È già al lavoro su altro titolo?
«Sto acquistando i diritti di altre storie ricavate da romanzi, sempre con personaggi femminili forti e centrali».
Un libro che sogna di tradurre in film?
«The Expatriates, il romanzo di Janice Y. K. Lee»