Sostenibilità
12 novembre, 2025"Vorrei che per una volta si ascoltasse quello che hanno da dire i rappresentanti delle popolazioni indigene. Se vogliamo salvare le foreste dobbiamo avere la capacità di convivere con tutte le altre specie che fanno parte del nostro territorio. Animali, piante, funghi, persino gli spiriti che le animano. Da soli, siamo destinati alla sconfitta"
«Più che aspettative ho un desiderio rispetto a questo vertice. Vorrei che per una volta si ascoltasse quello che hanno da dire i rappresentanti delle popolazioni indigene. Vorrei che si mettesse l’accento su delle soluzioni basate sulla natura. Se vogliamo salvare le foreste dobbiamo avere la capacità di convivere con tutte le altre specie che fanno parte del nostro territorio. Animali, piante, funghi, persino gli spiriti che le animano. Da soli, siamo destinati alla sconfitta».
Emanuela Evangelista ha 51 anni e da 22 vive a Xixuaú, un’area protetta dell’Amazzonia brasiliana sulle sponde del fiume Jauaperi, Nord Ovest del Brasile. È una biologa italiana cha ha scelto di restare dove era andata per una ricerca sulla lontra selvatica a rischio estinzione. È una delle esperte più ascoltate sui temi ambientali. L’Espresso l’ha raggiunta via telefono alla vigilia della Cop30 a cui parteciperà.
Cosa intende per convivenza?
«Mi riferisco alla capacità di condividere la nostra esistenza con ogni essere presente dove viviamo. Con tutto ciò che fa parte della natura che vogliamo proteggere e salvare. Non è un concetto bucolico. Parlo di rewarding, tutto ciò che è gratificante per il benessere del corpo e dell’anima: un’alternativa sempre bistrattata perché è prevalsa quella dominante, l’occupazione nello sviluppo».
Ma l’urbanizzazione è anche sviluppo.
«Un modello sbagliato che ci ha portato alla crisi attuale. Per sopravvivere bisogna sapersi integrare gli uni con gli altri. Le esclusioni creano delle priorità e condizionano la nostra esistenza».
I popoli indigeni parleranno anche di questo?
«Faranno soprattutto delle richieste. Imporranno la loro voce. In fondo si discute del territorio su ci vivono e quindi è logico che chiedano di essere ascoltati come non è mai avvenuto».
In che modo?
«Con tante proposte e tante soluzioni. La fantasia indigena è piena di risorse. Anche qui ci sarà una Cúpola dos povos: il cuore del dibattito e delle manifestazioni. Alcune rumorose, con canti e balli. La nostra organizzazione (Amazônia onlus) ha messo in piedi sei giorni di iniziative».
La maggior parte del vertice sarà nella zona blu.
«Molti dei partecipanti sono stati esclusi per questioni logistiche e organizzative».
Quindi la maggioranza resterà all’esterno.
«Molto sarà improvvisato. Arriveranno a migliaia. Dall’Ecuador, il Paese più lontano, hanno organizzato una flottiglia di barche, sulla scia di quella di Gaza, che sta scendendo lungo il Rio delle Amazzoni. Saranno cariche di gente, oggetti, anche animali. Un grande raduno e una grande festa».
Per lei ormai integrata cosa rappresenta la foresta?
«Bella domanda! Per gli indigeni la foresta è il loro corpo, un’estensione di loro stessi».
Una perfetta simbiosi.
«Una totale fusione. La parola ambiente è stata inventata da noi bianchi: ci sei tu e poi c’è la natura. Per questo si è scelto di andare verso l’urbanità, uno spazio dove sei l’unica specie vivente ed è precluso ad altri. Questo concetto è diventato mentale ma non è universale. Tantissime popolazioni hanno fatto scelte diverse. Scelte di integrazioni con l’ambiente da cui non si sono mai separate».
Un capo indigeno Yanomami mi ha detto che rifiutava di essere definito un guardiano della foresta.
«Lo capisco. I pericoli non vengono dall’interno ma dalle azioni di chi è all’esterno. Gli indigeni si difendono dalle nostre iniziative. Loro non si considerano abitanti dell’Amazzonia: sono l’Amazzonia. Non possono essere guardiani del loro territorio. Per questo, alla fine, per difenderlo sono costretti a imbracciare le armi. È una questione di sopravvivenza».
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