La produzione da materia organica è ancora una quota minima: 250 milioni di metri cubi contro i 76 miliardi del consumo totale di combustibile. Ma l’obiettivo è di 5,7 miliardi entro il 2030. Nati cento impianti negli ultimi otto anni

La sfida del gas con il biometano

Tra il metano e il biometano la differenza è in quelle tre lettere: b, i, o. Ma se un chimico analizza le due sostanze non ha modo di distinguerle, dato che entrambe hanno la stessa identica composizione. Eppure, il biometano risulta un combustibile sostenibile mentre l’altro, estratto dal sottosuolo, risulta dannoso perché aumenta la CO₂ dell’atmosfera. A spiegare questa apparente incongruenza è Vito Pignatelli, presidente di Itabia, un’associazione nata 40 anni fa per promuovere l’utilizzo delle biomasse, dalle quali si ricava anche il biometano. Ne fanno parte enti pubblici e società private. «Entrambi i combustibili rilasciano nell’atmosfera CO₂ – spiega Pignatelli – ma quella che viene rilasciata dal metano è stata intrappolata sottoterra per centinaia di milioni di anni, cioè il tempo che la natura si è presa per trasformare in un gas combustibile piante e animali che allora erano sulla terra. Liberare adesso quell’anidride carbonica va ad alterare l’attuale equilibrio dell’atmosfera. La CO₂  rilasciata dal biometano, invece, è stata catturata dalla materia organica di lavorazione (scarti agricoli o rifiuti organici) poco tempo prima e viene subito riassorbita con la crescita di nuova biomassa».

Quindi, l’industria riproduce in uno stabilimento lo stesso processo di fermentazione e digestione anaerobica di questi prodotti che viene messo in atto dalla natura; ma lo fa in un tempo infinitamente più breve. Si può dire che, in questo caso, l’industria opera in modo più sostenibile della stessa natura? In realtà, la natura si è limitata a trasformare le sostanze organiche in gas combustibile. E fosse per lei, rimarrebbe lì ancora altri miliardi di anni. È l’uomo che, invece, lo estrae per bruciarlo; e, così, rimette in circolo quella CO₂ che era stata ben conservata per così tanto tempo.

 

In ogni caso, si tratta di una Fer, Fonte energetica rinnovabile. Ma, come specificano gli esperti, è inesauribile in modo condizionato. Cioè, a condizione che se ne consumi tanta quanta ne viene prodotta di nuova. Questo può essere un limite che la rende diversa dalle altre fonti rinnovabili, ovvero eolico e solare, ma è anche un vantaggio: la si può stoccare e utilizzare quando serve, come si fa con i combustibili di origine fossile. Mentre quelle altre vengono prodotte quando c’è vento o sole: se ne viene prodotta più di quanto se ne consuma in quel momento, l’esubero si disperde perché stoccare elettricità risulta ancora costoso e poco sostenibile.

 

 

Il biometano è solo uno dei prodotti energetici che si ricavano dalle biomasse, ovvero tutto quello che viene utilizzato per produrre energia e proviene dal mondo vegetale o animale. È per questo che viene definito “materia organica”. Le biomasse solide vengono destinate a quattro utilizzi: per produrre calore, sia nelle abitazioni che nell’industria, elettricità, biocarburanti liquidi (biodiesel, HVO, etanolo) e infine biometano.

 

Nonostante tutti questi vantaggi, però, il biometano rappresenta attualmente una quota minima, rispetto al totale dei consumi italiani: ne vengono prodotti 250 milioni di metri cubi all’anno mentre il consumo totale di metano è di ben 76 miliardi di metri cubi. E il 93% di questo è importato dall’estero.

 

A cosa serve tutto questo gas? La maggior parte è destinato a riscaldamento (45%) e a produzione di elettricità (43%). Il 10% viene utilizzato dall’industria per i propri processi produttivi e solo il 2% è destinato ai trasporti. Per quella piccola quota di biometano, invece, le proporzioni si invertono. Quasi tre quarti (70-75%) viene destinato all’autotrasporto. Il 20-25% al settore industriale e il rimanente 5-10% al riscaldamento di abitazioni e uffici. Questo perché le società che distribuiscono carburante hanno l’obbligo di immettere nella propria rete una certa percentuale di biometano, che comunque risulta anche economicamente conveniente grazie a degli incentivi statali.

 

Rimangono, comunque, delle quantità irrisorie, se confrontate alla quantità di gas da estrazione che viene consumato. Il Pnrr considera l’aumento della produzione di biometano un “obiettivo primario” e ha stanziato 1,9 miliardi per la costruzione di 35 nuovi impianti entro giugno 2026. Insieme al Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) ha fissato degli obiettivi ambiziosi: 600 milioni di metri cubi entro quest’anno, 2,3 miliardi di metri cubi entro giugno del prossimo anno e ben 5,7 miliardi entro il 2030.

 

Sono obiettivi realistici? In meno di 10 anni, produzione e impianti sono cresciuti con un buon ritmo. Basta pensare che nel 2017 si contava in Italia un solo stabilimento e alla fine del 2023 ne erano attivi già più di 100. Ma per arrivare agli obiettivi fissati dalle norme italiane ed europee si dovrebbe accelerare a ritmi frenetici. Cosa frena questa crescita? «Gli investimenti – risponde Pignatelli – Perché produrre biometano è un’attività redditizia con un investimento iniziale, però, consistente. E l’ostacolo maggiore è dato dalla complessità burocratica e l’incertezza normativa. Conosco impianti per la produzione di energia da biomasse che sono riusciti ad aprire solo 7, 8 anni dopo avere presentato la richiesta. I vari enti locali hanno procedure diverse e sono tanti i soggetti il cui parere è vincolante. Perfino la Sovrintendenza alle belle arti o gli assessorati degli Enti locali che si occupano della tutela del paesaggio! Un impianto che si doveva costruire in una zona industriale, quindi in mezzo ad altre industrie, è stato bloccato per vincoli paesaggistici. In una zona industriale?».

 

Sono diversi gli imprenditori che hanno gettato la spugna e sono andati a costruire il loro impianto all’estero. E sull’investimento iniziale incide anche l’incertezza del sostegno pubblico: «Il decreto che prevedeva gli incentivi per la produzione di energia da biomasse, il FER 2, è scaduto e non è stato ancora approvato il nuovo che dovrebbe sostituirlo. Magari in tanti casi si riesce ad aggirare l’ostacolo grazie a qualche proroga. Ma come fa un imprenditore a chiedere un prestito in banca se non può fare affidamento sulla certezza di un incentivo che duri nel tempo?».

 

Senza gli ostacoli politici e burocratici, quindi, il potenziale italiano per produrre biometano sarebbe molto alto. Ma quanto alto? Fino a quanto si potrebbe arrivare? Per stabilirlo, bisogna prima capire da cosa si ricavano le biomasse. E le fonti sono sostanzialmente tre: rifiuti urbani, scarti agricoli e colture dedicate. La prima voce è quella che stiamo sfruttando meglio. E che quindi ha meno margini di sviluppo. «Siamo stati bravi con la raccolta differenziata – dice Pignatelli – così la parte organica la stiamo utilizzando talmente bene che adesso gli impianti non riescono a trovare rifiuti a sufficienza. Quando arriveremo a utilizzarne tutta la frazione organica, potremo tirarne fuori 1,5 miliardi di metri cubi ma non si può andare oltre. I margini di crescita, invece, sono molto ampi nel recupero degli scarti agricoli». Pignatelli cita una ricerca del 2017 secondo la quale in Italia venivano prodotti ben 19 milioni di tonnellate di residui agricoli e agroindustriali. Solo una parte minima viene utilizzata per ricavarne biomasse.

 

 

La terza voce, le colture dedicate, sembra essere invece poco razionale: coltivare il mais, per esempio, e destinarlo tutto a produzione di biomasse, significa sottrarre dei terreni all’alimentazione umana e, in più, utilizzare il cibo per produrre energia. Con inevitabili distorsioni sul mercato dei prodotti alimentari.

 

L’opzione più conveniente rimane, quindi, l’utilizzo degli scarti agricoli che comprendono anche quelli forestali. Tagliando gli alberi in modo sostenibile, quindi lasciando il tempo che ricrescano per mantenere lo stesso equilibrio, posso fare mobili con i tronchi ma dovrò ripulirli. E con i rami, le radici, la corteccia, e tutti gli altri residui che recupero da quest’operazione creo biomassa. Ovvero energia.

 

Ma tutti questi vantaggi ambientali hanno anche un costo sostenibile o, come spesso avviene con le soluzioni ecologiche, se le potranno permettere solo i più ricchi? In pratica: il prezzo del biometano è pari a quello del metano da estrazione? E perché i governi danno dei sostegni finanziari per promuoverlo? Anche qui c’è un’apparente contraddizione: economicamente è più conveniente anche se costa di più. Com’è possibile lo spiega ancora Pignatelli. «Semplicemente perché nel prezzo finale del biometano va calcolato anche quello che si risparmia per lo smaltimento dei rifiuti organici da cui si produce. Che in questo modo da costo si trasforma in fonte di reddito. Inoltre, consideriamo l’incidenza sulla bilancia dei pagamenti: mentre quello fossile lo compriamo quasi tutto all’estero, quello da biomasse lo produciamo con materia prima organica che abbiamo qui, con benefici economici e occupazionali che si estendono all’intera filiera produttiva, comprese un numero sempre maggiore di imprese agricole». 

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