Dario Fo «vive a Milano», David Bowie ha aggiornato lo status «cinque ore fa», Marco Pannella si ostina a pubblicare l’Iban dei Radicali Italiani, Bernardo Caprotti attraverso il profilo dell’Esselunga si è preso 18 mila like in un giorno e lo scrittore Tommaso Labranca, che sui social non c’è mai voluto stare, adesso ha una pagina con 294 mi piace. Sono tutti morti: ma, a un primo colpo d’occhio sui loro profili social, non si direbbe.
All’ombra dei cipressi e dentro Facebook s’avanza anche così una nuova forma di vita, quella post mortem. Una vita, si intenda, tutta digitale. Ci sono ormai in effetti almeno due posti nei quali va, o si impiglia, chi trapassa: e di certo uno è il social network. Che si sia ricordati da tutti perché si è stati famosi - nel florilegio di obituaries ai quali ogni volta segue pubblica riprovazione per l’eccesso di «lo conoscevo»; oppure si sia compianti da amici e parenti; o ancora, addirittura offesi e insultati dagli “haters” pure al momento del funerale, come è accaduto al leghista Gianluca Bonanno questa estate, alla fine il risultato è quello: il destino di restare on line, anche da morti. Che è uno dei tasselli attraverso i quali sta cominciando a cambiare il modo in cui pensiamo il passaggio all’aldilà.
Lo pensa Derrick de Kerckhove, uno dei più conosciuti sociologi di Internet, già allievo di McLuhan, che parla di una forma di presenza, anche dopo la morte: «Abbiamo sempre avuto a che fare con due tipi di spazio, paralleli e intrecciati: quello mentale e quello fisico. Adesso si è aggiunto anche quello virtuale: ed è l’unico nel quale sopravviviamo anche dopo morti. Jean-Paul Sartre dovrebbe scrivere un nuovo capitolo de “L’essere e il nulla”, e dedicarlo all’essere nel virtuale». Da ciò che è accaduto in rete, non può più tornare indietro: continua a star lì, lo si ricorda per forza.
Insomma, dopo i “Sepolcri” di Foscolo, Ippolito Pindemonte ha, diciamo, un nuovo avversario: si chiama Mark Zuckerberg. È il social adesso a testimoniare la «celeste corrispondenza d’amorosi sensi» tra vivi e morti. Che, nell’era del cordoglio 2.0, diviene connessione permanente. Mentre il legame, magari, diventa un link. Per Carlo, che è stato accoltellato da ragazzo, gli amici postano foto; a Benedetta la sorella dedica sempre molti pensieri. Tania è mancata quasi quattro anni fa, ma ogni anno si fa il conto di quanti ne compirà. La moglie di Mario ha postato sul profilo di lui tutti gli scatti del loro matrimonio. La figlia di Paola fa sobbalzare tutti gli amici quando si collega al profilo della mamma: che, pur morta, risulta «attivo/a ora», quasi come fosse un fantasma. E Lorenzo dà ragione a De Kerckhove, quando scrive sul profilo Facebook di suo padre: «Il tuo account c’è ancora e ogni tanto sbircio... Spero che magari arrivi un tuo nuovo post….». Il suo papà è morto da cinque anni: ma sai mai, la vita. E poi lui sta ancora là, con la nipotina in braccio, i commenti, i saluti. Sia pure incorporeo, come i post e le email, c’è.
E con lui, su Facebook, ci sono già venti milioni di defunti, secondo una ricerca che risale al 2013. Una necropoli virtuale. Entro qualche decennio, sulla piattaforma social ci saranno più morti che vivi: il vignettista-blogger Randall Munroe ha calcolato che dovrebbe accadere tra il 2060 e il 2130 (a seconda del successo della piattaforma tra i giovanissimi).
Adesso però la questione non è più teorica, una scadenza futura, una curiosità. Si è incarnata, sta accadendo, ci inciampiamo davvero. Ormai tutti o quasi hanno tra gli amici dei social persone che non ci sono più, e anche questo sta cambiando la nostra percezione della morte. Anche perché chi vive nel mondo digitale, non può essere completamente cancellato. «La digitalizzazione della vita digitalizza anche la morte: una volta c’era l’anima immortale, adesso ad essere immortale è il profilo social», sospira l’antropologo Marino Niola, che sul tema ha pubblicato “Il presente in poche parole”. Ora, oltre magari all’applicazione che ci ripresenta un ricordo che riguardi una persona nel frattempo scomparsa, ci stiamo abituando anche ad essere avvisati del suo compleanno. Possiamo trovarci a scrivere «tanti auguri» sulla bacheca di un vivo, come su quella di un morto.
Siamo pronti ad affrontare tutto ciò? Mica tanto. Si tratta di imparare a gestire la nostra eredità digitale. Ma, nota de Kerckhove, «non sappiamo ancora come trattare le tracce che lasciamo online in vita, figuriamoci disporre di quelle che resteranno dopo di noi».
Negli Stati Uniti, dove a queste cose pensano con la solita tendenza alla concretezza e all’iperbole, si sono già sfornate da tempo guide pratico-morali sul tema (una delle più famose è “Your digital Afterlife”, di John Romano e Evan Carroll); sono anni che vengono proposti social dove caricare tutto ciò che vogliamo ci sopravviva (uno è per esempio boxego.com), oppure sistemi e applicazioni come Eternal beings, e più di recente Eternal9, che promettono di inviare informazioni, messaggi o foto dopo il trapasso, oppure di continuare a generare contenuti digitali anche post mortem. «Quando il tuo cuore smette di battere, continuerai a twittare», è lo slogan (anche vagamente minaccioso) di uno di questi.
E le scoperte si fanno sempre più raffinate. L’ultima di cui si è saputo è quella di una maga dei computer di Silicon Valley, Eugenia Kuyda, che mescolando le tracce digitali con migliaia di messaggi personali scambiati in anni, ha messo in piedi un sistema per chattare con la versione digitale (chatbot) del suo amico Roman che è morto un anno fa in un incidente stradale; i due possono parlare per esempio d’amore, ma non di Donald Trump, perché l’algoritmo non può inventare reazioni su situazioni del tutto nuove, ma solo rielaborare ciò che è stato già affrontato, quando era in vita. Lei, in qualche modo, lo trova consolatorio. Su questa forma di consolazione punta anche il mercato: ad esempio, la giovane cantautrice Claudia Crabuzza, appena premiata con la Targa Tenco per i dischi in dialetto, lancia proprio adesso - periodo di Halloween e 2 novembre - il video di “L’altra Frida”, dove balla con la “Santa Muerte” del folklore funebre messicano.
La maggior parte delle persone, però, più che ricostruire la personalità del defunto, s’accontenta di mantenerne in vita il profilo social. D’altra parte, almeno per il momento, la piattaforma non si accorge da sola che sei morto, se nessuno l’avverte. Il che però non attenua il paradosso, anzi. L’aldilà ci sta più vicino. Il confine tra vivi e morti è meno evidente. L’idea della fine fa capolino dentro l’eterno presente di Internet: «L’aldilà bussa alla porta, e buca con uno spillo la bolla di eternità in cui il web pare avvolto; nello stesso momento Internet contagia la morte con la sua viralità incorporea. L’effetto è un corto circuito tra presenza e assenza», dice Niola.
Il fatto che una persona scompaia diventa qualcosa che fa parte della vita digitale pubblica e può esservi ricompreso. Fino quasi a far sparire la morte: «Nell’universo dei social network in qualche modo si cancella la morte: i defunti continuano ad essere fra noi, fanno parte di questa vita surreale, immaginaria, che è la vita sulla rete», dice il filosofo Sergio Givone, tratteggiando una versione 2.0 dell’“anima mundi”, l’unione della singola anima con quella di tutti gli altri, nella quale risiede l’immortalità: «Ciò che è stato è sempre. E cosa è la rete, se non l’insieme di tutte le anime? Chi partecipa a questa anima immortale, cioè la rete, è sempre vivo».
Anche se poi, certo, chi è “vivo” in questo modo, non è esattamente la persona che fu. È la sua rappresentazione. Dice Niola: «Quando ricordiamo persone che non ci sono più, non ricordiamo quelle persone, ma il loro ricordo. Internet riesce a realizzare qualcosa di diverso: trasforma in realtà l’“eidolon”, realizza l’icona, trova il punto mediano tra la cosa reale, la persona che è stata, e il suo ricordo». È una memoria in qualche modo aumentata, interattiva: «In rete non solo sei ricordato, ma sei continuamente cliccato. E forse cliccare è proprio ricordare, in una società nella quale la memoria non è più soltanto nel cervello delle persone».
Alla fine, è come se Internet ci dicesse che non solo non siamo soli, ma che non lo saremo mai più. Per alcuni consolatorio, per altri terrificante. «È come se la morte stesse tornando ad essere vissuta come un evento collettivo, invece che soltanto come un lutto privato», dice De Kerckhove. Poterlo affrontare anche via social, dal punto di vista psicologico ha dei vantaggi, spiega la psicoterapeuta Costanza Jesurum: «È una buona forma di negoziazione del lutto: rispetto al fatto dirompente di una persona che un giorno c’è e il giorno dopo non c’è più, i social permettono un atterraggio morbido, almeno per le relazioni non troppo strette. Nell’interno hai la certezza che una persona non ci sarà più, però l’esterno ti permette di negoziare gli oggetti. E il mezzo, cioè il social o la rete, offre una tridimensionalità che prima non c’era: ci sono le foto, i pensieri, le arrabbiature, i commenti, i momenti importanti». Diventa meno difficile vivere il momento. Ma al di fuori di questo, nella psiche non cambia nulla in rapporto alla morte: se ne parla di più, in rete, soltanto perché «è lo strumento a rendere visibili alcuni meccanismi che sarebbero altrimenti privati», oppure «ad agganciare delle strutture di personalità meglio di altre».
Se questo è il punto di vista psicologico, opposto appare quello socio-antropologico. Attraverso la socializzazione online, la morte diventa meno un tabù. Dice De Kerckhove: «La nuova intelligenza sarà riscoprire che pensare e condividere la morte è un insegnamento prezioso. È un concetto che non abbiamo ancora maturato, ma stiamo uscendo dal lutto come qualcosa di segreto, riservato, dalla narrazione classica della morte. Ora si condivide tutto con tutti, c’è persino chi si suicida in diretta, stiamo perdendo il sentimento della privacy. Lasciamo tanti pezzi di noi, in giro per il web, ma la continuità del nostro essere può venir ricostruita, e la memoria di una persona può andare oltre il suo momento finale, chi muore non è mai completamente sepolto». Ci avviciniamo forse al una specie di immortalità? «Non esageriamo. Non siamo ancora arrivati a dare una autocoscienza alle nostre creature digitali. E comunque, il virtuale non è eterno. Dipende dall’elettricità: qualcosa di molto fragile».