
Ecco, dunque, la scelta di puntare su di lei come capodelegazione di Italia viva (IV?) è più che naturale: la foto di gruppo con signora nella quale si riconosce solo la signora. La ministra è in effetti quasi l’unico volto spendibile, visto che per lo più i protagonisti del fu governo Renzi sono rimasti nel Pd. E nello stesso tempo - con buona pace persino di uno come Ettore Rosato, già padre del Rosatellum, altra riforma amatissima dal popolo - Bellanova è l’unica il cui passato recente non risulti tossico per il presente (e il futuro, figuriamoci). Figlia di comunista, tessera del Pci da ragazza, bracciante, sindacalista, meridionale, donna ma di target diverso da Maria Elena Boschi. Una che salì sul palco della Leopolda nel 2015, proprio nel pieno della bufera Banca Etruria, per parlare di quella volta che i caporali la vennero a cercare con le pistole nella camera del Lavoro di Villa Castelli, e lei aveva solo 14 anni.
Ecco, da allora Bellanova è l’algoritmo perfetto del renzismo post batosta referendaria - il momento del trauma al quale sempre si torna nonostante siano passati ormai tre anni. Proprio su di lei Renzi fece accendere i riflettori quando si trattò di ripartire, dopo il passaggio del testimone a Palazzo Chigi. «Che differenza c’è tra il governo Renzi e Gentiloni? Che manca Renzi», diceva lei, viceministra nell’uno come nell’altro.
Renziana d’acciaio, ma arrivata alla politica nazionale grazie a Pier Luigi Bersani dopo trent’anni di Cgil, Bellanova ha sempre lottato per la tutela dell’esistente. Da sindacalista, difese con le unghie l’articolo 18 dagli assalti berlusconiani; da renziana, sottosegretaria al Lavoro, difese il suo smantellamento nel Jobs Act. Nel febbraio 2017, quando toccava picchiare contro la scissione di Articolo 1, fece tra i più applauditi interventi all’assemblea del Pd pre-scissione, invitò i vari Bersani e Speranza a «non sottrarsi alla pratica della democrazia» e quindi a «misurare il consenso tra gli iscritti e i militanti». Per poi chiedere, sui giornali: «Tutti possono fare una scissione ma, il giorno dopo, quelli che fanno una scissione hanno un programma politico?». Già, ce l’hanno? Calma, dipende. Adesso che è tra gli scissionisti Bellanova spiega infatti che la sua «non è scissione, ma sincera presa d’atto di una difficoltà di coesistenza tra anime diverse che in questi anni si è fatta sempre più evidente». Quindi non è questione di programma.
Quel che in mano agli altri è «roba da palude» e «da manuale Cencelli», in mano ai renziani è infatti pura questione di «coraggio», «strada nuova». Come al solito «la meno battuta» - anche se ormai piena di cadaveri. Bravissimi i renziani, soprattutto questi di nuovissimo conio - anzi: vivissimo conio -, a seguire la rotta senza fare storie. Muti alla meta. Basta del resto guardare le pagine social dei protagonisti di IV (o Iv?) per capire quanto tutti non si aspettassero la svolta fuori dal Nazareno. C’è chi esibisce una partita a calciobalilla i cui giocatori militano ormai in (almeno) due partiti diversi. C’è chi ha piazzati ancora tutti i riferimenti al Pd: i manifesti, le bandiere, eccetera. C’è infine Roberto Giachetti, ammirevole. Il radicale, già vicepresidente della Camera, campeggia su Facebook con uno degli ultimi video, pubblicato alla vigilia dell’uscita dal Pd, in cui per otto interminabili minuti – apparentemente ignaro di tutto - spiega la scelta di dimettersi dalla Direzione nazionale dem, come se davvero fosse ancora quello, il punto. E dire che era stato zitto più di un mese. Nella sua ultima intervista, risalente al 10 agosto, spiegava: mai al governo col Pd. Anche allora, Renzi gli cambiò rotta il giorno appresso. Ma non è il fiuto a fare un renziano, è chiaro.