
Sono passati soltanto due anni e invece sembra un secolo da quando, nel febbraio 2018, in piena campagna elettorale, Alessandro Di Battista col solito understatement comiziava così, a poche centinaia di metri dalla villa di Silvio Berlusconi. Leggendo poi a voce alta insieme alla folla riunita, come in una preghiera, stralci della sentenza di condanna dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
Due mesi dopo, il 7 aprile 2018, avrebbe provocato il più scrosciante tra gli applausi al più applaudito dei partecipanti alla kermesse Sum a Ivrea: il magistrato Nino Di Matteo, ospite d’onore della Leopolda a Cinque stelle, all’epoca indicato come possibile ministro dell’Interno visto che il posto di Guardasigilli era prenotato - almeno dall’estate 2017 - da colui che in effetti tutt’ora lo occupa: Alfonso Bonafede. Insomma c’erano già tutti, attori principali e ingredienti, slanci e idiosincrasie. Stava anche per arrivare la svolta pro-Pechino, così ben incarnata poi da Grillo e Luigi Di Maio, adesso anche da Di Battista, che ora sottolinea la virtù dei buoni rapporti: «La Cina vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europeo tale relazione», ha scritto sul Fatto, incarnando peraltro la linea di Davide Casaleggio - che col mondo cinese in italia ha in questi anni stretto ottimi contatti.
C’era già tutto, e adesso quel video ad Arcore torna per misurare quale distanza ci sia tra allora ed oggi. Col Movimento acciambellato nei Palazzi, la piazza vuota e non solo per Covid-19, col Guardasigilli intento a scrollarsi di dosso la «percezione» (così la chiama, forse tragicamente in buona fede) di non aver voluto proprio Di Matteo a capo del Dap per indicibili pressioni, e i movimentisti della prima ora in pesante imbarazzo per il fatto di invece essere difesi - ma come, proprio noi? Proprio lui? - da personaggi come Vittorio Sgarbi.
Serve a misurare quanto sia alta la posta in gioco della partita attorno alla creatura voluta da Gianroberto Casaleggio e di fatto abbandonata da Beppe Grillo - l’ultimo atto di peso del comico genovese è stato, ad agosto scorso, convincere il riluttante Di Maio ad accettare il governo col Pd. La distanza, dunque, ma anche la profonda ambivalenza interna al M5S. Serve infatti, il confronto col passato, anche a capire quanto di girotondo e commedia dell’arte vi sia, ancora una volta, nella vicenda pentastellata: perché già nell’aprile 2018, prima della nascita del governo gialloverde, la kermesse Sum02 dedicata a Casaleggio senior era disertata sia da Grillo (in tour per teatri) sia da Di Battista (impegni familiari all’estero), mentre al bar si aggiravano personaggi come l’ex braccio destro di Bernabé, Franco Brescia, lobbista per Huawei. E persino pure Casaleggio jr, appoggiato a un lato della sala, tributava al pm del processo sulla Trattativa, probabilmente per sincero disinteresse alla materia, tre miseri clap-clap in tutto.
Di questo girotondo, Alessandro Di Battista è uno dei più efficaci interpreti proprio perché più di tutti se ne proclama fuori, e invece ci sta dentro fino al collo: perché la voglia di contare non si misura con le poltrone - anzi, di solito, è vero il contrario. Al secondo anno di legislatura e secondo governo, fuori da entrambi, dopo aver cantato per Capodanno con il figlio in braccio un claudiobaglionesco «Voglio andar via» in salotto (e averlo puntualmente postato su Instagram), dopo aver passato cogitabonde settimane in Iran per il suo nuovo reportage per conto del Fatto che, insieme con i diritti sui libri, gli garantisce l’entrata in luogo di quella da parlamentare (anche se il documentario tratto dal suo viaggio in Sudamerica, prodotto sempre da Loft, non è poi stato nemmeno trasmesso da Sky nonostante gli annunci), ha infatti ripreso a incarnare il ruolo che gli viene meglio: quello della mina vagante, del detonatore di polemiche, dell’innescatore di inneschi. Lo abbiamo visto all’opera nell’ultimo mese, agitare come un ossesso la battaglia sul Mes, il giro di nomine e la riconferma di Descalzi all’Eni, la bandiera pro-Cina e anti Ue - con modalità che nei Palazzi hanno ricordato assai da vicino quelle della propaganda russa e cinese. Per non parlare di quell’hashtag #adessodibba, che ricompare ogni minuto su Twitter. E sembra la sintesi della sua voglia di esserci.
Una specie di campagna di primavera per riaffermare quello che è il suo ruolo vitale, nell’equilibrio dell’organismo chiamato M5S. Come lo sono, nei boschi, i funghi dopo i germogli, i lombrichi oltre alle api.
Endiadi, al pari di quella che sta nella foto in tandem con Di Maio e che continua a campeggiare sulla pagina Facebook di Dibba. Al contrario suo, infatti, l’ex capo dei Cinque stelle, dimessosi formalmente dal ruolo il 22 gennaio in favore del reggente Vito Crimi (doveva durare un mese, poi è arrivata la pandemia), è infatti la quintessenza del Movimento di governo, il leader di un partito in dissoluzione (i sondaggi di Alessandra Ghisleri, nemmeno i peggiori, lo danno al 14-16 per cento: la metà del 32 del 2018) che però conta trecento parlamentari e legittimamente gioca allo sport più antico del mondo: quello di durare per durare. Durare per nominare, al massimo, come si è visto di recente, con, fra l’altro, l’ennesimo compagno di liceo sistemato da qualche parte (Carmine America, giusto per fare un esempio, è entrato nel cda di Leonardo).
Una specie di marmellata paralizzante che, fin che può, tiene in piedi la legislatura, sapendo che è escluso il ritorno. Con il rischio, però, di annegare anzitempo, tra sottocorrenti, balcani, polvere ed establishment. In assenza di una forte guida, dopo l’eclissi di Luigi Di Maio - che adesso, più di tutto, mira a sopravvivere a Conte, con il quale ha intrapreso una battaglia senza esclusione di colpi ma pressoché invisibile alla superficie.
Ed ecco quindi il vitale ruolo di Di Battista e della sua ambizione che sembra puntare al caos e invece contribuisce all’ordine. Nella debolezza generale, infatti, Dibba da innescatore di inneschi, finisce per compattare i malumori - in qualche modo li governa. Da subito, con un toccante post all’indomani della formazione del governo giallorosa, si è posto come traghettatore per tutti gli ex potenti pentastellati, rivendicando di aver difeso «Danilo», cioè il casaleggiano Toninelli, «diventato il bersaglio numero uno del sistema mainstream perché è il primo ministro dei Trasporti da molti anni a questa parte che non ha alcun legame, diretto o indiretto, con le concessionarie autostradali private».
Adesso, con Dibba, ci sono non a caso le ex ministre Giulia Grillo e Barbara Lezzi, insofferenti per l’andazzo sinistroide («siamo mica diventati una corrente di Franceschini?», domandava Lezzi l’altro giorno su Facebook), oltreché l’ex socio di Rousseau Max Bugani. Perché Dibba è un guerrigliero, come sempre. Così con lui ci sono gli eletti che in Europa hanno votato contro la risoluzione sui Recovery bond, spaccando la maggioranza di governo: gli eurodeputati Piernicola Pedicini, Ignazio Corrao, Rosa D’Amato, gli stessi che in luglio si misero di traverso nell’operazione contiana che sarebbe stata premessa al governo col Pd, votando contro Ursula von der Leyen.
Ci sono anche sinceri sconfinamenti: l’appello lanciato su Facebook sempre da Dibba contro la conferma di Claudio Descalzi all’Eni («sulla base delle nostre regole non sarebbe stato candidato nemmeno a un consiglio circoscrizionale» eccetera) è stato firmato da una dimaiana di ferro come Maria Edera Spadoni e da un movimentista come Nicola Morra. Senza considerare che la stessa modalità dell’appello firmato è un grande classico dei partiti vecchio stile, mentre è sempre stata esclusa come mezzo di lotta all’interno del M5S, che sul punto è davvero più cinese dei cinesi. Un’iniziativa da probiviri, da espulsione, da scomunica. Invece non è volata una mosca. Strano, no?
È che in realtà, tutto questo non è in contrasto con il mondo casaleggiano, anzi, il contrario. Vige l’ambivalenza assoluta, tra chi governa e chi si ribella: è interessante, in questo senso, rimettere in fila proprio le tappe relative alla conferma di Descalzi. L’amministratore delegato di Eni, come ha raccontato il Fatto, a metà febbraio ha avuto un colloquio di sostanziale rassicurazione a Palazzo Chigi con il sottosegretario Riccardo Fraccaro e, sempre in febbraio, un paio di settimane prima, aveva avuto un incontro con lo stesso Davide Casaleggio.
E dove era Di Battista? Nei giorni in cui si stringevano i bulloni della riconferma, l’ex deputato aveva appunto iniziato il suo lento ritorno dall’Iran. Ha alzato la bandiera dell’orgoglio grillino molto dopo, a metà aprile, quando tutto era ormai consumato.
Il sospetto è quindi che si tratti di allenare un profilo politico: una campagna di immagine (#adessodibba), più che la voglia di mandare all’aria qualcosa, l’obiettivo di mostrare che il partito non è morto. Una rivoluzione da salotto, insomma. Un fantasma sul palcoscenico. Come è l’ombra di una scissione, anche quella molto in voga per anni nel racconto M5S e poi in effetti mai realizzata. «Non si può dire che questo non sia un rischio reale», ha buttato là Corrao. Episodi come l’ordine del giorno sul Mes firmato da Fratelli D’Italia, che il 24 aprile ha spaccato i Cinque stelle in Parlamento (in sette hanno votato a favore), autorizzano a coltivare questa ipotesi. Ma la cosa, visti i parametri grillini, più che in maniera scientificamente mirata potrebbe realizzarsi in virtù di un colossale equivoco, come i tanti capitati in questi anni (da ultimo sul caso Bonafede-Di Matteo). Ed è per questo che negli ambienti istituzionali si scrutano le mosse di Dibba con un misto di inquietudine e speranza.
L’inquietudine anima chi punta alla stabilità; la speranza è quella di chi vede in lui il rompighiaccio per la propria, successiva, affermazione. Insomma, al partito di Dibba, idealmente, potrebbero iscriversi Renzi e Salvini, persino Berlusconi. Per costoro, una caduta del governo per mano di un pezzo dei Cinque stelle sarebbe il delitto perfetto.
Lo sarebbe persino per Di Maio, che forse solo così potrebbe sopravvivere a Conte, altrimenti tanto ingombrante. Piccolo particolare: bisognerebbe contare sulla voglia di faticare di Dibba, non propriamente il suo forte.