Laborioso, attendista. Anzi immobile. Su pensioni, concorrenza, giustizia il presidente del Consiglio s’è messo a schivare le manovre dei partiti e rimandare tutto ciò che è divisivo. Un temporeggiare freddo, in vista del Quirinale

In un momento tutto s’è afflosciato. Siamo tornati noiosi, impotenti, normali. Un’Italia che non tira in porta, senza diritti, rivolta all’indietro. Che rinvia, di necessità: costretta a giocarsi il futuro nella roulette dei playoff, a marzo, quindi non adesso, dopo. Vale per il calcio, quattro mesi esatti da Wembley a Windsor park, dalla sbornia degli Europei al punto interrogativo sui Mondiali. Vale, iperbole, per Mario Draghi e per il suo governare. Il futuro sembrava formidabile, l’epilogo potrebbe esserlo meno. Dal trionfo sulla vertigine del Pnrr al rischio del capitombolo a cavallo del Quirinale, un vento che sta cambiando, come diceva Virginia Raggi un tempo. Sembrava di essere all’inizio di un nuovo inizio, ora non siamo più sicuri del tipo di inizio: sarà mica l’inizio di una fine?, è l’orrendo dubbio che s’insinua in controluce. È bastata una manciata di giorni, a dare il segno di un cambio di fase. Dalle foto coi grandi del G20 intenti a lanciare monetine nella fontana di Trevi, all’esistenziale alternativa dello spritz con l’Aperol oppure con il Campari, che ha costretto Draghi ad esporsi («Campari») pur di schivare, da presidente del Consiglio, le dichiarazioni del barista sotto casa, tal Antonino Proietti, che lo sapeva già proiettato al Colle (uno sport romanissimo, perché va detto che né a Berlino né a Città della Pieve un barista si sognerebbe mai di aprire bocca sui suoi clienti importanti: sono cose che accadono giusto nella Capitale, dove tutto può esistere, anche un posto che si chiami “Pagaroma”, e dove può essere la norma inciampare in presidenti, ministri, principi del Foro, pezzi grossi in genere della sorrentiniana Grande bellezza).

 

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Appena il tempo di dire autunno, comunque, e siamo passati dal lessico della Bce a quello degli antichi romani. Dall’inglese al latino. Dal «Whatever it takes» al «Cunctando restituit», motto dell’Istituto Massimo dove Draghi ha studiato, tratto dalla descrizione che Ennio fece del console e dittatore romano Quinto Fabio Massimo, colui che è passato alla storia come il «temporeggiatore» perché, appunto «temporeggiando salvò lo Stato». Ecco, circa duemila e duecento anni dopo, siamo a Mario Draghi lo snervatore. Una nebbia sottile ha avvolto i racconti su Palazzo Chigi, che parlano di un presidente del Consiglio «immobile», «laborioso», «attendista», intento a «schivare», «dosare», «alternare», «accontentare e scontentare» una maggioranza sempre più «sfilacciata», «scomposta», «slabbrata». Il Pd che cerca di mettere in piedi un nuovo centrosinistra, il M5S allo sbando, il centrodestra che si è specializzato in posizioni triplici su tutto, tante quante i suoi leader. Mentre incombe la vertigine da spavento delle riforme cui metter mano (la mobilità sostenibile, i porti, la tracciabilità dei rifiuti, la digitalizzazione del servizio sanitario, la riforma degli istituti tecnici, il piano nazionale per la lotta la sommerso, la spending review, la trasformazione digitale di tutte le amministrazioni pubbliche, eccetera) con scadenze sempre più ravvicinate, e il sabba attorno alla manovra si è fatto ancora più indemoniato. Con gli articoli della manovra licenziata dal Consiglio dei ministri il 28 ottobre che al momento dell’arrivo in Senato a metà novembre sono saliti da 185 a 219: segno indubbio dello sforzo. Insomma non è un caso che proprio ora, in una ambivalente coincidenza, sia tornato uno degli spettri più temibili per un governo tecnico: quello di Mario Monti. Con da un lato il senatore a vita, in carne ossa e acume, che dalle colonne del Corriere della Sera sferza il governo sulla necessità di fare subito le riforme e di controllare la finanza pubblica, rivolgendo montianamente il Mario Draghi di ieri (capo della Bce) contro quello di oggi. E dall’altro, in contemporanea, il fantasma di Monti premier prendere forma accanto al capo di Palazzo Chigi: il tavolo per la finanziaria proposto dal segretario dem Enrico Letta, infatti, prima di naufragare in un mare di perplessità ha fatto tornare alla mente quando nel 2012 il senatore a vita, da capo del governo, riuniva in segreto i personaggi chiave della sua maggioranza detta ABC: Angelino Alfano, Pierluigi Bersani, Pier Ferdinando Casini. Un passato da brivido.

 

Draghi stesso s’è fatto principe del compromesso. L’uomo che questa estate sferzò i frenatori della campagna vaccinale contro il Covid-19, e nello specifico Matteo Salvini, con parole durissime, dicendo che «l’appello a non vaccinarsi è l’appello a morire. Sostanzialmente. Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire. Non ti vaccini, contagi, lui o lei muore», praticamente la versione seria del Gabriele La Porta imitato da Corrado Guzzanti, quando con l’occhio spiritato gli faceva scandire: «Altrimenti-lui-muore». L’uomo talmente pignolo da contestare in conferenza stampa una giornalista del Corriere della Sera, Gianna Fregonara, perché aveva sintetizzato alla lettera il suo proposito di fare due Consigli dei ministri a settimana, quindi «24 fino a Natale», apostrofandola tra la celia e il brusco: «È lei che ha fatto le moltiplicazioni!» (non era tuttavia un gesto politico da parte di Draghi, inconsapevole trattarsi della moglie di Enrico Letta). Ecco, proprio lui, si è specializzato in colpetti, preannunci, rimandi, di cui qui possiamo dare solo alcuni esempi: ha forgiato una legge sulla concorrenza che a destra ha fatto rimpiangere le lenzuolate di Bersani, una riforma della giustizia che ha come principale pregio quello di cancellare gli effetti più assurdi della precedente (Bonafede) e che comunque ancora manca della parte relativa ai decreti attuativi, dato il la a una revisione dei valori catastali che tuttavia potrà cominciare a dispiegare in pratica i suoi effetti tra cinque anni, aperto coi sindacati la possibilità di discutere della riforma delle pensioni ma nella primavera 2022 (per quest’anno già basta aver superato pro-forma Quota 100), non ha chiuso la partita sull’affare del Monte dei Paschi (servirà più tempo), non ha certo avviato la rivoluzione sulla Rai, non ha detto una parola sulla destinazione degli 8 miliardi da usare per tagliare le tasse (ogni partito della maggioranza propone una ricetta diversa), in compenso ha fatto slittare la questione concessioni balneari in una maniera talmente oculata da far sobbalzare persino uno che la sa lunga come Rino Formica: «Ha detto che vuol prendersi sei mesi per la mappatura. Ma a me, nel 1981, quando divenni ministro delle Finanze la diedero in pochi giorni», ha detto l’ex ministro socialista in un’intervista a Repubblica.

 

Tutto questo barcamenarsi è dovuto all’odore del Quirinale o alla difficoltà a tenere insieme la maggioranza? È la domanda che rimbomba nei Palazzi, laddove rispondono cinicamente: entrambe le cose, perché il fine è comune, l’imperativo è quello di non scontentare nessuno. L’andamento è infatti ad imbuto: più si avvicina la partita per il Colle (si comincia a votare materialmente a metà gennaio) meno i partiti riescono a governarsi, in un momento tanto cruciale quanto privo, forse per la prima volta, di un regista. Infatti, per quanto tutt’ora il presidente dell’Anci Antonio Decaro lo possa agilmente definire un «superMario», in mezzo alla standing ovation dei sindaci come accaduto alla Fiera di Parma la settimana scorsa, Draghi non può essere il regista di se stesso: persino ai superpoteri ci sono dei limiti. Non sfugge l’accorta regia che una volta lo porta tra i ragazzi dell’Istituto tecnico superiore Cuccovillo di Bari, un’altra nel cuore della Comunità di Sant’Egidio, detta Onu di Trastevere. Tuttavia il no al bis, esplicitato nei giorni scorsi dal capo dello Stato Sergio Mattarella oltre ogni ragionevole dubbio, non rende affatto più semplice al premier restare in silenzio come ha fatto finora. Secondo il tam tam proveniente da Palazzo Chigi ne vorrebbe parlare alla conferenza stampa di fine anno, ma risulta difficile pensare possa aspettare ancora così tanto. Se l’ambizione iniziale è scontata, il punto di caduta finale decisamente no. E chiunque accenni a una qualche fase sul punto di chiudersi, come qualche giorno fa (ha raccontato il Foglio) il sottosegretario alla presidenza Roberto Garofoli che in un incontro tecnico prodromico al Consiglio dei ministri ha fatto capire di essere alla vigilia «dell’ultimo Cdm pienamente operativo», finisce nel secchio dell’irritazione fredda di un premier che, a dispetto del nome, più che drago sputafuoco pare essersi fatto salamandra: quell’essere mitologico capace non solo di attraversare indenne le fiamme  ma, come scrisse Brunetto Latini, di «spegnere il fuoco grazie alla sua natura».

 

L’impazienza di svelare l’intenzione del presidente del Consiglio, comunque, è tale che martedì scorso, durante l’incontro con i sindacati, il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha riferito di aver colto un «sì» da parte del premier alla domanda se, a marzo, sarebbe stato ancora lui l’interlocutore sulla riforma delle pensioni. Quel sì, prontamente smentito da Palazzo Chigi, non chiariva, in ogni caso, in quale ruolo Draghi ci sarà. L’unica certezza, in questa partita dall’esito completamente incerto, è in effetti che di lui non si potrà fare a meno, in un ruolo o nell’altro. Anche se c’è chi pensa che, in tanto ondeggiare del motore della Repubblica, rischia alla fine di essere proprio lui, da salamandra temporeggiatrice, a sbalzare via.

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