Il ministro della Cultura sbarca nel capoluogo partenopeo. Per candidarsi al Senato nel segno dell’asse Pd-Cinque stelle, in vista del dopo Draghi. Mentre al sud Enrico Letta si gioca la partita delle elezioni 2023

La campagna elettorale del Pd per le prossime politiche comincia al Sud. A Napoli, già il 26 aprile. Ma ad aprirla non sarà il segretario Enrico Letta. Sarà il longevo aspirante nell’ombra, il pluriministro romanziere, l’eterno numero due: insomma Dario Franceschini. Dopo sette anni (e quattro governi) da titolare della Cultura, colui che Matteo Renzi battezzò «vicedisastro» ha appena pubblicato, oltre ai cinque romanzi, il suo primo libro da politico, di quelli classici di aneddoti, progetti e visioni, dove ricorda quando si sentì trattato da Obama come «il ministro di Disneyland» e racconta quanto è stato scaltro a voler guidare «il principale ministero economico del nostro Paese» (“Con la cultura non si mangia?”, La nave di Teseo).

 

Lo presenterà a Napoli con il sindaco simbolo del patto Pd-M5S, Gaetano Manfredi, moderato da Myrta Merlino, al circolo Tennis Club Napoli, un luogo non di popolo ma certamente di peso, capace di eventi da millecinquecento persone; un salotto presieduto attualmente da quell’essere mitologico del mastellismo di inizio millennio che è stato Riccardo Villari (indimenticabile la parabola che lo sbalzò in prima pagina: al Senato grazie all’Udeur, passò al Pd, di lì divenne presidente della commissione Vigilanza Rai ma coi voti della destra, fu espulso dal partito, rifiutò per mesi di dimettersi dalla presidenza: alla fine, per destituirlo, dovettero sciogliere l’intera commissione e rinominarla daccapo). L’appuntamento al circolo è più che una tappa del normale tour di promozione di un libro: segna il fischio d’inizio del prossimo progetto.

 

Franceschini punta infatti per la prima volta al Senato. E a Napoli, quindi al Sud - dove, va ricordato, i beni culturali rappresentano una amministrazione di peso, più che al nord. Eletto ininterrottamente deputato dal 2001, sempre nei collegi emiliano-romagnoli, risultato l’ultima volta perdente all’uninominale nella sua Ferrara (prese 10 punti meno della destra, fu recuperato nel proporzionale), il ministro della Cultura pare adesso orientato a cambiare campo di gioco.

Il Segretario del Pd Enrico Letta

Affacciandosi alla Camera alta, progetto sul quale ha cominciato a ragionare a fine 2021, quando ha visto ingarbugliarsi la partita del Quirinale. Affacciandosi a Napoli che, ricordiamo, è il luogo dove meglio si è espresso quel patto tra Pd e Cinque Stelle di cui in generale è difficile scorgere i frutti. E soprattutto affacciandosi al meridione, terra complicata per il Pd sin dalla sua fondazione – per via di quella tendenza che nei corridoi del Nazareno chiamano «caciccato», l’affidarsi ai locali ras delle tessere - e ora più complicata che mai: un’area decisiva per il centrosinistra nella prossima tornata elettorale. È solo se regge al sud, infatti, che il Pd – debole al nord, e privo di un alleato che gli dia la volata - può pensare di aspirare a una vittoria elettorale. Da un certo punto di vista quindi Franceschini si dispone ad aiutare Enrico Letta che, come si sa, ha nei suoi disegni un Pd che arriva primo partito del centrosinistra e che esprime quindi il presidente del Consiglio (cioè lui stesso, vedi alla voce revanche).

 

Ed è qui però che comincia la biforcazione, la rivalità sotterranea tra quelli che furono i due vicesegretari del Ppi di Franco Marini, nel 1997. Se Letta punta al primo posto, infatti, Franceschini si apparecchia il desco per il secondo. Si prepara cioè come al solito a fare la carta di riserva: se il disegno del segretario dovesse fallire, e il voto del 2023 restituire un sostanziale pareggio (è l’ipotesi più probabile), ecco allora comparire dal Senato una possibile alternativa al governo tecnico modello Draghi, forse non più replicabile: il governo istituzionale modello Franceschini, forse inaugurabile. Questa è la parabola che si azzarda a disegnare nei corridoi di Palazzo. Contorni ovviamente vaghi, stante che non è nemmeno chiaro se cambierà la legge elettorale, anche se sono già cominciati i saldi per il ritorno del proporzionale («col 22 per cento il Pd avrebbe più parlamentari di adesso», calcolano addirittura).

 

Qualcosa però già si intravede. In un certo sussurrato dichiarare «fuorimoda» e «poco popolare» una figura come Vincenzo De Luca. E, parimenti, nella tessitura che va facendo Franceschini – anche attraverso l’assessora al Turismo Teresa Armato, sua donna all’Havana partenopea - nei rapporti con il sindaco-rettore Gaetano Manfredi, primo aggregato di potere alternativo a quello di De Luca dopo anni di monopolio. Anche se il governatore-sceriffo parteciperà (figuriamoci) alla presentazione del libro del ministro della Cultura, è chiaro infatti che qualsiasi mossa su terra campana finirà per entrare in collisione con l’universo deluchiano. In questo senso viene letta come azione anti-De Luca pure la nomina, un mese fa, di Annalisa Cipollone a capo di Gabinetto del Mibac, al posto di Lorenzo Casini: a febbraio Cipollone, consulente giuridica di Franceschini, era stata attaccata da De Luca per una lettera in difesa della tutela del paesaggio. Era seguito un nutrito battibecco tra ministro e governatore. Ecco, potrebbe essere l’inizio di un genere.

 

Sarebbe una nuova grana per Enrico Letta che, nonostante una geografia interna riarticolata in modo più ordinato e una apparente pax («mai stati così uniti, è sempre così quando le cose vanno bene», spiegano nel partito), a partire proprio dal Sud si trova sul fronte interno in una posizione «inguaiata» non tanto dissimile da quella del suo predecessore Nicola Zingaretti. Più che il segretario, che nel Pd non è mai un dominus, comanda infatti la paralisi, frutto dell’interdizione reciproca tra correnti. La pace apparente, un grande classico dem, che andrà in crescendo con la battaglia per la composizione delle liste per le elezioni politiche, ma che già adesso dà frutti nella sua versione commissariale: l’ultimo caso è (ancora) campano. E riguarda la segreteria regionale, dove dopo tre anni sono arrivate a marzo le dimissioni di Leo Annunziata. Ecco, pareva che si fosse trovata l’intesa per la successione: il nome era quello di Stefano Graziano, che metteva d’accordo Letta e De Luca. Ma procedere alla sua elezione avrebbe significato ritrovarsi un interlocutore in più, legittimato dal territorio, al momento della composizione delle liste per il Parlamento. Cosa che è piaciuta pochissimo alle varie correnti, meno di tutte alla sinistra. E così, per evitare scontri frontali, la soluzione a quanto pare sarà il commissariamento: un commissario, per quanto scelto magari dallo stesso segretario, non ha la forza sufficiente a modificare gli equilibri che le varie componenti decidono a Roma. Non a caso, il commissario è la stessa via d’uscita trovata a fine marzo per la Puglia, con la nomina Francesco Boccia.

 

E la soluzione dalla quale, con l’elezione a gennaio di Nicola Irto a segretario regionale, si è appena tirata fuori dopo tre anni di commissariamento la Calabria, praticamente l’unica regione del Sud dove c’è un’aria di rinnovamento, dopo il disastro politico che ha preceduto le ultime amministrative. Ecco si ha l’impressione che Letta voglia esportare il modello Calabria. Eppure lì lo scontro aveva preceduto il suo arrivo alla segreteria nazionale del Pd, e si era svolto in un sostanziale vuoto di potere, cioè senza personaggi come De Luca o, in Puglia, Michele Emiliano, dai quali sin qui nessun segretario dem è riuscito a rendersi autonomo. Bisognerà vedere, su piazze del meridione così complicate, quanto Franceschini sarà d’aiuto. Se lo sarà. 

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