Non solo A Thousand Blows: le nuove eroine delle serie tv

Mary Carr, Isla Gordon e Modesta. Protagoniste vincenti ma non invincibili. Creative e soprattutto umane. Come cambia la rappresentazione della donna nello streaming. Marina Pierri: «Qualcosa si muove, ma nelle stanze della sceneggiatura sono sempre troppo poche»

Se c’è una cosa che le serie televisive dovrebbero aver insegnato è la rinuncia alla bidimensionalità. Un sistema di espressione mediatica che perlomeno sulla carta sta provando a oltrepassare il confine, correndo più veloce della Storia stessa, e alzando il suo sguardo al di là di quei due soli, miseri lati, si ostina a raccontare un mondo in movimento inseguito con il consueto affanno dalla macchina da presa. 

 

Così accade che persino le donne, sostantivo plurale che ancora oggi come riportano i dizionari, si esemplifica come “L’individuo femminile della specie umana: una bella donna, una donna elegante, raffinata, scarpe, abiti da donna”, stiano provando a prendersi lo spessore che spetta loro, quella tridimensionalità che sarebbe, in parole assai povere, semplicemente dovuta. E succede che proprio nella serialità fioriscano figure femminili che lasciano cadere come abiti dismessi il concetto stesso di semplicità biunivoca, donne buone o cattive, fate o streghe, puttane o madonne, e col senso pratico che le contraddistingue riescano a lasciare da parte quel vezzo del super potere a cui troppo spesso è stato viziato lo sguardo dello telespettatore.

 

C’è Mary Carr (Erin Doherty), che ha trovato il suo posto nel mondo spiccatamente maschile in cui ci si prende a pugni ancora senza guantoni, della serie gioiello “A Thousand Blows” (Disney+). Il period drama di Steven Knight pennella la famigerata Regina dei Quaranta Elefanti, personaggio realmente esistito a capo della più grande organizzazione criminale femminile della Londra vittoriana, che trascina i suoi abiti di seta azzurra con un passo pesante come il suo passato: «Mi sembra di avere a che fare con un cazzo di uomo». «Eh no, io sono più forte di un uomo, perché sono una donna».

 

C’è Modesta (Tecla Insolia insuperabile), la protagonista de “L’arte della gioia” (Sky) di Valeria Golino, una giovane donna sopravvissuta a un ambiente ostile che la voleva domata e sottomessa come condizione inevitabile della sua esistenza a cui lei non si rassegna, e si ostina a vivere per guadagnarsi il diritto a una felicità negata quasi per principio dalla società. «Ho sempre rubato la mia parte di gioia» dice Modesta, che se ne frega della morale, che uccide e ruba e imbroglia, senza pentimento, senza sensi di colpa, personaggio irresistibile e sovversivo come l’intero libro di Goliarda Sapienza, e soprattutto donna libera. Invece Isla Gordon (Kate Hudson) si ritrova a capo di una squadra di Nba in “Running Point”, comedy leggerissima (Netflix) che si dimostra molto più densa di quel che sembra. E in quella sorta di grumo maschilista di giganti che vanno a canestro, in cui le fanno la guerra persino i suoi fratelli, Isla capisce che per cavarsela non deve semplicemente comportarsi come loro, ma farsi guidare da se stessa. Infine, si fa per dire perché l’elenco potrebbe continuare a lungo, c’è “Imma Tataranni”, che delle figurine bidimensionali non sa proprio che farsene. Personaggio imperfetto per eccellenza, disegnato sul corpo di Vanessa Scalera per la serie di Rai Uno, è una donna fallibile ma dotata di comprensione, che ama suo marito ma ne desidera anche un altro, e soprattutto vive la complessità e le sue sfaccettature come un dato di fatto, perché in bilico tra la risata e il dramma ci sa stare benissimo.

 

 

Donne protagoniste delle storie più varie, che dirigono ospedali o spazzano i pavimenti altrui, si ribellano alla violenza o si abbandonano agli amanti, che si affermano non perché uniche ma proprio in quanto deperibili, fallaci, capaci di sbagliare neanche fossero davvero umane. Insomma, nel mondo seriale pare che ci si stia facendo una particolare attenzione. Quasi che l’idea della “donna forte” che sembra un uomo come se ancora fosse un complimento di risulta, stia lasciando il posto alla concretezza di personaggi variegati che non hanno alcuna intenzione di cadere nell’emulazione, non Wonder Woman in mutande come cloni di Superman in tuta blu ma persone che anziché svolazzare portano i loro corpi nel mondo, per essere guardate, capite e persino diventare uno specchio dei vissuti altrui.

 

Insomma, “Le protagoniste delle serie tv possono aiutarci a fiorire”, come recita il sottotitolo di “Eroine”, il libro di Marina Pierri (Tlon) che torna in libreria a cinque anni dalla sua prima edizione. Il testo, che attinge con generosità alla mitologia e alla psicologia del profondo, intrecciandosi al femminismo intersezionale, si basa su tre schemi portanti, “Il viaggio dell’Eroina” di Maureen Murdock, “The Virgin’s Promise” di Kim Hudson e  “45 Master Characters” di Victoria Lynn Schmidt e prende a esempio ventidue figure seriali, per ridefinire letteralmente il concetto di eroismo femminile. Daenerys Targaryen, Fleabag, Alex Levy, OA, donne profondamente diverse tra loro con cui non ci si deve identificare ma comprendere e rispettare il loro essere quel che sono, per imparare in qualche modo a rispettare per rispettarsi. Così ogni personaggio diventa un archetipo, dalla ricca bianca  “Mrs. Maisel” alla trans latina Blanca Rodriguez-Evangelista di “Pose”, da Sana, ragazza musulmana col velo nella scuola di “Skam” a Lila, la Dea oscura de “L’amica geniale”

 

Ma chi è l’eroina? «L’eroina è il compimento di un viaggio che decostruisce le aspettative delle altre persone per rinnovare quelle che sono le proprie aspettative nei confronti di se stesse», spiega Pierri a L’Espresso: «Ed è proprio questa la chiave, l’eroina a un certo punto si interroga su quello che lei vuole e non su ciò che gli altri vorrebbero per lei. I suoi desideri, quel che di fatto agisce come deterrente affinché lei viva una quotidianità nella quale si sente piena, realizzata». Praticamente un racconto di ricerca sostanziale della libertà personale, che non deve chiedere un sacrificio, una rinuncia, una sorta di gioco di scambio tra una parte di sé e un’altra. «Certo, perché la libertà non è mai data, è sempre una conquista. L’eroe maschile ce l’ha come premessa, in un racconto il personaggio uomo nasce libero e in quanto tale si pone davanti all’avventura sia essa fisica o intima, poco importa. Per le eroine invece è l’esatto contrario: per loro la libertà è il traguardo finale». 

 

 

 

Parlare di serie televisive con Marina Pierri è un po’ come sedersi a tavola con una chef: saggista, scrittrice, studiosa di narratologia e co-fondatrice e direttrice artistica di FeST, spiega bene come stia cambiando il mondo dello streaming per quanto riguarda lo sguardo femminile. «Gli anni della televisione sono come gli anni dei cani, in dodici mesi succedono tantissime cose, si modificano registri, cambiano gli stilemi, cambiano le preferenze di genere, cambia il gusto del pubblico e tutto accade con una velocità impressionante. Quando ho scritto “Eroine” ho raccontato un’epoca televisiva che è stata il motore iniziale del cambiamento. E in questo momento ne stiamo raccogliendo i frutti. Alcune protagoniste oggi sono finalmente date per scontate e questo è accaduto anche perché c'è stata una forte volontà degli Studios di coinvolgere più donne nelle stanze della sceneggiatura. Tutto parte da lì. Quello che vediamo davanti alla telecamera ha sicuramente un grande valore, ma quello che conta davvero è ciò che succede al momento della creazione, nella scrittura, nella regia, nella produzione. Questo secondo me ha un valore maggiore perché lì si trova la capacità di decidere, la scelta, la decisionalità di come deve funzionare l'arco di trasformazione di un personaggio femminile. E bisognerebbe sempre tenere conto di quante sono le donne che scrivono una serie tv. Perché sono poche, anzi pochissime e quelle che hanno un potere economico nella produzione seriale sono ancora meno. Alla fine, insomma, si parla sempre di potere. Ora, io non credo in assoluto nella leadership femminile, non penso che essere donna condizioni il tuo cervello. Però sono fortemente attenta al privilegio, all’opportunità di formazione, e quello che so è che c'è una diversa esperienza immediata del corpo nel mondo, cioè io so che essere una persona con un corpo di donna nel mondo ti dà un'esperienza differente di privilegio rispetto ad avere un corpo maschile. Quando si parla di qualità della scrittura è necessario prescindere dallo stereotipo, e per farlo bisogna portare delle esperienze fresche che non ne fomentino la generazione, perché se si continuano a raccontare le cose per sentito dire, allora non si avranno altro che narrazioni distanti che non corrispondono al reale, mentre invece noi sappiamo che la scrittura è anche scomodità e raccontare la propria esperienza, raccontare il proprio corpo quello sì che è scomodo».

 

 

Così mentre la televisione generalista va dritta per la sua strada voltata all’indietro (basti dire che nel report Rai del 2022 emergeva che in tv la quota di persone/personaggi femminili all’interno delle trasmissioni monitorate era del 36,8 per cento, contro il 62,9  di quelli di genere maschile) il mondo seriale sta provando a dare uno sguardo in avanti.Lo sintetizza Maura Gancitano nella prefazione a “Eroine”: «Una serie tv può cambiare la percezione su tematiche sociali, scientifiche, politiche, relazionali, dando voce a persone che nella nostra società sono ancora invisibili, a cui non viene mai data la parola. Sempre più showrunner ne sono consapevoli, e per questa ragione stanno compiendo un’opera di educazione sentimentale che non può essere ignorata». 

 

E Marina Pierri chiosa: «Quel che serve davvero oggi è proprio la consapevolezza: le storie sono involontarie, la modalità del racconto no». Insomma, come diceva qualcuno, beato il popolo che non ha bisogno di eroi. Però, ben vengano le eroine.

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