La partecipazione all’Isola dei Famosi è solo l'ultimo esempio di un malcostume diffuso. E l'elenco degli onorevoli passati dallo scranno al piccolo schermo è destinato ad allungarsi. Perché, almeno in tv, qualcuno ancora li vota

Adinolfi, Giarrusso, De Girolamo: quando la televisione è l'ultima spiaggia per la politica

Camicia di seta abbottonata fino al collo, messa in piega con casco e bigodini, come usavano un tempo le signore di un certo tono, crocifisso in bellavista. Irene Pivetti, la presidente della Camera più giovane nella storia di un Paese assai anziano, indossava la sua divisa protetta da un piglio arcigno, senza mostrare mai i denti. Sino al giorno in cui, buttato il tailleur sotto al ginocchio alle ortiche, ed esaurito il consenso elettorale, nominò l’allora marito come suo agente, cantò a occhi chiusi “Questo piccolo grande amore” muovendo il capo a ritmo sul “Tappeto volante” di Luciano Rispoli e dopo un attimo si infilò come Eva Kant in una tuta di lattice per giocare con Platinette sulle trasformazioni da bisturi in prima serata. Come un Ulisse qualsiasi, il canto della sirena televisiva l’aveva posseduta senza fare neanche troppi sforzi, perché senza dubbio avere a che fare col secessionismo padano era più impegnativo di un tango a “Ballando con le stelle”.

 

Ma guai giudiziari a parte, buttarsi negli studi televisivi come seconda occasione per cambiare letteralmente abito è ormai pratica sin troppo abusata, e pazienza se qualcuno che ostinatamente si era recato alle urne per barrare quel nome si trova ad affermare una nuova forma di consenso attraverso un telecomando. Tanto, pubblico o elettorato, alla fine nella messa in scena dello show cambia solo la scenografia.

 

Così, giusto per non fare nomi, nella centrifuga della lavatrice televisiva che prende, pulisce e rimette sul mercato, c’è finito Mario Adinolfi, che dopo gli ultimi disastri elettorali spunta sull’Isola dei famosi per permettere agli autori di genio di spuntare la casella dei giusti. Ed ecco che all’improvviso diventa Mario il Saggio, neanche fosse un imperatore minore, paragrafo sbiadito di un vecchio Bignami: «Sono un calabrone, che a dispetto del suo peso usa le ali per compiere imprese che nessuno mai». Il coraggioso, capace di sfidare i pregiudizi. L’adulto, che vuole aprirsi ai giovani per capirli, per aiutarli. E che, placidamente immerso nelle acque dell’Honduras, si ritrova dipinto dall’autorevole conduzione come portabandiera di un messaggio inclusivo contro l’orrore dell’odio social. Ora, cercando di non ridere, è legittimo chiedersi a chi convenga di più questo discutibile cancellino sulla lavagna del buon senso comune. Se al politico, che dopo aver raggiunto la vetta delle zero preferenze apre la porta di un reality anziché la saracinesca di una bottega di profumi. Oppure alla televisione, che dopo aver raschiato oltremodo il barile dei vip sul mercato è costretta suo malgrado a pescare verso nuovi orizzonti, affannandosi a spostare la luce non sulle magagne passate ma sulle sorti umane e progressive che agognano un punto insperato di share. Difficile a dirsi, ma a quanto pare assai facile a farsi, al punto che al fantomatico televoto Adinolfi, finalmente, trionfa.

 

Che entrino tutti allora nella raccolta delle telline, va bene anche Dino Giarrusso, l’ex Cinque stelle respinto poi con perdite dal Pd in cui non è riuscito a entrare, che reagisce con coraggio provando a diventare almeno leader della puntata. Sono i nuovi voltagabbana, quelli che un tempo saltellavano di partito in partito e che ora si rendono protagonisti dello zapping tv. Come fece Antonio Razzi, che avrebbe votato persino Totò Riina al Quirinale se gliel’avesse chiesto il suo idolo Berlusconi e che, dopo aver deliziato il Senato con il suo italiano creativo, la stima imperitura per il “moderato” Kim Jong-un, e il suo cambio di casacche, provò a riciclarsi spalla comica con Saverio Raimondo colpevole di una fallimentare operazione simpatia, nei “Razzi vostri”, mentre da una parte danzava con Milly Carlucci e dall’altra esternava liberamente nel fu salotto di Barbara D’Urso.

 

Ma non tutte le facce sono onorevolmente bonarie. C’è chi è arcigno e conservatore in Parlamento, sguaiato nei dibattiti pubblici, in odor di santità davanti alla lucina rossa. Così Alessandra Mussolini rinnega, se non il nonno, almeno la sua veemenza omofoba proprio in televisione facendosi poi ritrarre con tanto di ali arcobaleno, perché effettivamente «meglio fascista che fr**cio» non era un gran curriculum per danzare nel piccolo schermo. 

 

Nunzia De Girolamo invece, ex ministra della Repubblica, a suo dire trombata per colpa di una manina femminile, si riscopre dalla parte delle donne, quanto meno di una e viene eletta stella nascente di TeleMeloni. Così piove un programma, anzi due, anzi mettiamoci anche un talk show, poi se chiude anzitempo basta affidarle subito qualcos’altro, che tanto la memoria è breve in politica, figuriamoci in televisione.

 

Un mezzo che frulla e cavalca un andirivieni continuo, regalando un trampolino di lancio di visibilità inusitata per candidature della prima ora, a volte con un solo giro di ruota, della fortuna nel caso di Matteo Renzi, del “Pranzo è servito” per Matteo Salvini. Aprendo le sue timide braccia all’esternazione libera e sempre meno onorevole di chi sente di essersi guadagnato di diritto un posto in prima fila nei talk show senza ombra di contraddittorio. Ed esaltando la smania di protagonismo, inarrestabile, di chi utilizza la carica pubblica come un impermeabile da aprire all’improvviso appostato dietro a un albero. Ma che al tempo stesso funziona anche al contrario, per chi sente di aver ormai esaurito quel poco da dire a un elettorato esausto, trasformatosi nel tempo in un annoiato pubblico. Tanto la credibilità in un senso o nell’altro è decisamente sopravvalutata. 

 

Resta solo il principio granitico, enunciato da chi di questo mezzo ne capiva parecchio e che può essere serenamente applicato al mondo della politica, senza cogliere alcuna differenza. «La Tv presenta come ideale l’uomo assolutamente medio». Lo diceva Umberto Eco, e dargli torto è sempre più dura.

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