Ha rivoluzionato il piccolo schermo dando alla “ggente” quello di cui aveva bisogno. In molti oggi tentano di imitarlo. Ma senza riuscirci. La parabola del “giornalaio” in un libro

Giocatore d’azzardo, fumatore incallito, maestro di improvvisazione, nato povero, morto sfacciatamente ricco, indomabile funambolo, genio del marketing e corpo ancor prima che anima, della televisione tutta. Gianfranco Funari ha dato alla comunicazione del piccolo schermo ogni briciola di questo suo essere, annaffiandola con la generosità di chi aveva catturato l’attenzione della luce rossa della telecamera, era riuscito a masticarla con la sapienza dell’istinto per poi digerirla con la medesima avidità, senza lasciarne neppure una briciola agli incauti che dopo di lui hanno provato in maniera sin troppo maldestra di raccoglierne l’eredità. 

 

E proprio il tentativo di capire cosa davvero sia rimasto oggi di quel suo essere dentro il sistema per frantumarlo per poi ricomporlo, può essere uno spunto riflessivo di interesse, per chi l’ha visto e per chi non c’era. 

 

A ripercorrere la grande macchina costruita nel tempo dal giornalaio, come amava definirsi assai spesso, ci provano Marco Falorni e Andrea Frassoni nel libro “L’algoritmo Funari” (NFC edizioni), un’analisi che a partire dal suo movimento televisivo racconta il presente e il recente passato del nostro Paese. «Funari rompe a tal punto gli schemi da diventare paradigma. Quel che ha incarnato non è solo un linguaggio televisivo ma un vero e proprio metodo per prevedere i gusti della gente e comunicare esattamente quello che le persone cercano nel momento in cui lo cercano». Come l’algoritmo appunto, ma dotato di vita propria, che si muove davanti a una telecamera facendola innamorare perdutamente.

 

La rivoluzione di Funari, costruita con l’istinto di un animale da piccolo schermo, comincia esattamente 45 anni fa su Telemontecarlo con “Torti in faccia”: semplici cittadini, divisi per categorie, che si scontrano su temi comuni, si azzannano, si confrontano, si buttano nella piazza mediatica in cerca di consenso. Questa formula spettina il pubblico silente che si ritrova all’improvviso protagonista in prima fila, mentre lui, il burattinaio, tiene i fili del gioco, bacchetta e incalza, per emergere sempre, come protagonista tra i suoi pari. Una sorta di macchina infallibile, che si trasforma nel successo roboante in Rai di “Aboccaperta”, e poi passa a Mediaset, torna al servizio pubblico, dirige l’Indipendente, crea pubblicità, alza gli ascolti con una sola ospitata e infine diventa scomodo, come un sassolino nella scarpa.

 

Oggi assistiamo inermi a una tv che non solo perde pezzi identitari a furia di assecondare la deriva social dove il popolo è la voce arrogante del web, ma che si ritrova vittima di un virus inestirpabile, quello che lascia libero il flusso variegato di coscienze, monologhi politici compresi, che troppo spesso ha ben poco da dire. 

 

Quel che Gianfranco Funari ha sdoganato in una carriera, fatta di altezze vertiginose e di precipizi insondabili, come la fortuna che ti volta le spalle senza chiederti il permesso, è stato esattamente quel microfono aperto in tempi non sospetti lasciato in pasto alla gente, possibilmente con due g, come imponeva la sua cadenza sfacciata, quella gente muta sino a un attimo prima di ricevere in dono la possibilità di aprire la bocca, con il gran maestro pronto ad accogliere il flusso di incoscienza del popolo affamato di primi piani. E “gente” diventa tra le sue mani anche la politica, resettata allo stesso livello, messa in piazza e ritradotta. Onorevoli di vario genere e numero, abituati a una comunicazione grigia come il colore delle loro giacche a doppiopetto, si ritrovano nell’arena per un confronto popolare ancor prima che populista, in cui Funari con la sua volgarità tenace e gentile, li spoglia letteralmente, mantenendo l’indipendenza di chi prova più gusto a spettinarli tutti mettendoli di fronte al cittadino che deve capire «perché dalla politica è sempre stato fregato». 

 

Scrive Michele Serra, in un intervento riportato nel libro «Funari non era un demagogo come ce ne sono tanti, era un rarissimo caso di populista solitario, un populista senza popolo» che è stato esaltato dal potere, coccolato dalla televisione, vezzeggiato dagli sponsor, amato dal pubblico e dopo tutto questo rispedito al mittente come non gradito.

 

Una parabola che la dice lunga della televisione tutta, che da quell’uomo ha provato a spremere blande imitazioni, dalla “Zanzara” di Giuseppe Cruciani che spalanca i microfoni senza filtri a Massimo Giletti che sottolinea ogni concetto perché ci tiene a essere compreso, dall’incauto “Avanti popolo” di Nunzia De Girolamo alle squadre di “Ciao Darwin” di Paolo Bonolis. Così la comunicazione si traduce in un magma indistinto di toni alzati, senza capire quale sia il limite imperscrutabile tra informazione e intrattenimento, dove per essere alla portata di tutti si sconfina spesso e male. 

 

Non ultimo dell’elenco si inserisce il cosiddetto “retequattrismo”, definizione della Treccani che così poco piace ai suoi protagonisti, dove l’intero palinsesto emula lo spirito di Funari. Eppure non basta esibire l’insulto fingendosi pop, non è sufficiente ingigantire il primo piano all’urlo di “Donatooo” davanti alla telecamera impaurita, e non basta certo contrapporre le due fazioni, sport assai praticato in quella rete, che campa sull’immigrato cattivo, i giovani sbandati, le borseggiatrici rumene e poco più. Paolo Del Debbio che in prima serata manda a quel paese (ma detto peggio) i colleghi avversari, Mario Giordano che cavalca la televisione dell’incazzatura arringando lo spettatore e così via, si sperticano nell’emulazione. Ma come ricordava lo stesso Funari, «tutti possono fare televisione. Ma state attenti: questo è un mezzo di comunicazione che amplifica: se uno è scemo rimane scemo e anzi, si vede di più».

 

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