Nuova stagione su Rai Tre dello storico programma del giornalista. Tra empatia e forza del racconto. Praticamente la tv come andrebbe fatta

E con Domenico Iannacone il servizio tornò pubblico

C'è la tv che urla, quella che spegne il cervello, rimesta nel passato incapace di aggrapparsi a un’idea. Quella che va avanti con il solito rumore sordo calpestando ciò che trova sul proprio cammino. E poi c’è quella che rifugge il clamore, per riempirsi di senso. La televisione che impara dall’ascolto, che insegna l’attenzione verso l’altro, e che fa uscire da quella piccola scatola le vite dei singoli che si fanno tesoro comune. Domenico Iannacone è tornato su Rai Tre, come una meteora gentile e una manciata di puntate del suo “Che ci faccio qui”. 

 

Alieno in un pianeta a lui sconosciuto, ha riportato il suo intero corpo dentro le storie per restituire la giusta dignità al potere del racconto. Il titolo ormai storico del giornalista che ha lasciato il punto interrogativo da parte, scava nella mente umana, insegue traiettorie che colpiscono immobilismi e stereotipi e arriva dritto al cuore, entrando nelle fragilità per uscirne con la forza d’insieme. 

 

Un programma che da sempre si rinnova come piccola grande rivoluzione, in cui quell’omone timido, empatico, mai assente, non arretra  di fronte alla complessità ma la respira, dietro una porta socchiusa, perché la voce non sia la sua ma quella dell’altro. E le storie diventano un luogo vivo da frequentare, le parole un patrimonio da coltivare, senza la ruggine della retorica. 

 

Quel che esce da queste quattro solide puntate è un Paese che nasconde i suoi eroi, a pelo d‘acqua, lanciando funi a cui aggrapparsi per emergere da un servizio che all’improvviso si riscopre pubblico. Dopo i misteri della mente e la memoria che si dissolve, lasciando un vuoto doloroso non solo in chi parla ma soprattutto in chi guarda e si sente impotente, è la volta della casa, luogo dell’abitare, luogo del respingere.

 

Così c’è Liliana Nechita, romena, da oltre vent’anni in Italia, che mentre si prendeva cura degli altri ha iniziato a usare la scrittura per farsi coro delle migliaia di donne dell’Est Europa, invisibili e sospese in un presente che non le riconosce. C’è Edoardo Tresoldi, l’artista che ridona la forma a ciò che sembra perduto restituendo un luogo a chi quel luogo l’ha perduto per sempre. E c’è Guglielmo, che ha perso tutto senza smettere di resistere, e che grazie a un nuovo incontro riaccende una luce in un’esistenza che sapeva di buio. 

 

Così Iannacone si affianca ai suoi protagonisti, tutore orgoglioso, amico silente. E a guardare queste storie in cui l’empatia prende il sopravvento senza l’orgoglio del protagonista, anche lo spettatore si fa alieno. E davanti a una tv improvvisamente diversa, seppur per poche ore, si chiede davvero che ci faccio qui.

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