Televisione
14 luglio, 2025Legami, cugini, ricerca di guarigione. Con la quarta stagione la serie Disney si conferma necessaria in questi tempi insipidi
Ogni secondo conta, sei minuti i cavatelli, attenta, sei in ritardo, quanto manca alla panna cotta chef? E quanto manca a tutto il resto, alla felicità, alla solitudine, al desiderio di fare meglio, urlare meno, ascoltare di più? Il tempo scandisce implacabile questa quarta, necessaria, stagione di “The Bear” (Disney+) che si conferma una delle cose migliori prodotte in questi tempi senza sapore.
Tic, tac, orologi in primo piano, sveglie che suonano, un tempo catturato e rinchiuso in una bottiglia che trasforma il vino in un’istantanea liquida, esposto sfacciatamente nel timer che campeggia nella cucina come un totem pronto a fischiare la fine, un fiume in piena che rallenta per poi ricominciare da capo.
Ed è un tempo lento che ti prende per mano nel corso dei dieci episodi sommando la frenesia del piatto alla fatica del cuore per un eterno ritorno, dove ogni giorno si presenta uguale a se stesso sino a mischiare le carte in tavola, come fogli di menù che volano via, dalle labbra strette di Jeremy Allen White, che mastica gomme alla nicotina per proteggersi dal suo caos. Struggente come sempre, “The Bear” scava e divide i piani, mescola ingredienti e famiglia, quella strana pazza famiglia infelice a modo suo, piena zeppa di cugini non cugini, uno zio che non è zio di nessuno, una madre incapace di esserlo.
E mentre si lanciano brandelli d’amore scomposto come coltelli e scorrono i flussi di salse e coscienza, sbucano le parole mai dette: «scusa» e «grazie». Un tempo lento sì, ma che ha una strada precisa da percorrere perché i legami più di fatto che di nome sgomitano da protagonisti, allargandosi a dismisura mentre rosicchiano lo spazio alla cucina e rendono spettacolo il trauma di ognuno e la ricerca del suo superamento.
E ci si commuove, parecchio, quando tutto si ribalta al punto che la scena in cui nessuno prova a essere altro, senza nascondersi, si svolge sotto al tavolo, non sopra, tutti rannicchiati, coperti dalla lunga tovaglia per mostrare debolezze e paure, guardandosi negli occhi. Praticamente una lunga, dolorosa e soddisfacente seduta di terapia collettiva dove scegliere di fuggire o restare significa decidere di far parte comunque di quel grumo disfunzionale impiattato in un albero genealogico, dove i sentimenti si cuociono a fuoco lento, come il tempo che li muove.
Alla fine non c’è la fine, forse è solo un nuovo inizio e tra le voci che si accavallano come la musica, splendida protagonista dell’intera stagione, nel caos si intravede una luce da seguire, come una stella delle guide, ma che ha il sapore, deciso, della via della guarigione.
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