«Lotto da trent’anni per la verità in nome di mio marito, servitore dello Stato ucciso a Capaci»

«È ancora tanto quello che non conosciamo. Io non ho mai abbassato la testa». Le parole della moglie del caposcorta di Giovanni Falcone Antonio Montinaro, e madre di Gaetano e Giovanni che nel 1992 avevano 4 anni e 21 mesi

Li guardo allo specchio e mi accorgo che non solo il dolore, le amarezze, gli schiaffi presi e quelli parati hanno lasciato il segno. Non è solo questione del tempo che passa. Perché anche le tante vittorie, che pure ci sono state, anche quelle mi porto addosso. Trent’anni vissuti con determinazione e orgoglio. Sì orgoglio. Per Antonio, per l’esempio di poliziotto che è stato e, se permettete, anche per me stessa. Per come sono andata avanti, per come ho cresciuto i miei figli. Per le persone perbene che sono diventate. E per il modo in cui ho combattuto e combatto per la verità. Perché, se è vero che molto sappiamo, è ancora tanto quello che non conosciamo. Io non ho mai abbassato la testa e lungo la mia strada non sono sempre stata in compagnia.

 

Sono tanti i momenti in cui mi sono sentita isolata da chi avrebbe dovuto proteggermi, sola perché ostinata nel non volermi rassegnare quando altri si accontentavano di parate e commemorazioni, soggiacendo all’idea di un’antimafia finta, di facciata. Talvolta anche occasione per trame e oscuri interessi. Molte volte, lungo questi trent’anni, mi sono resa conto che non tutti provavano davvero a fare la loro parte. Perché è questo che ci è chiesto, contribuire, ciascuno nel proprio ambito, a costruire un Paese migliore di quello che era nel 1992. E questa non è una battaglia che si fa per procura.

 

Mio marito ha fatto la sua parte. Ha compiuto fino in fondo il proprio dovere di servitore dello Stato. Lui e i suoi colleghi non sono le vittime collaterali di un eccidio. Ed è giusto che il Paese ne ricordi i nomi uno per uno, come persone e non numeri. Con le loro storie e i loro sogni spezzati.

 

Perché erano lì dove il loro lavoro gli imponeva di stare, incuranti dei rischi che comportava. Mi sono chiesta spesso, nei momenti di sconforto, se ne valesse la pena. Soprattutto di fronte ai depistaggi, alle omissioni, ai passi falsi e ai passi indietro nella lotta alla mafia che hanno scandito questi anni, dandoci l’impressione che il 23 maggio fosse solo la data di una ricorrenza in cui rispolverare molta retorica e poca concreta voglia di pulizia e di verità. Non ho che una risposta: procedere con più forza di prima.

 

Ho speso le mie energie perché la Quarto Savona 15, quel che resta dell’auto nella quale mio marito ha trovato la morte, riprendesse idealmente a viaggiare. Che diventasse un monito itinerante capace di scuotere le coscienze e affermare che no, non li hanno fermati. Abbiamo promosso un ciclo di incontri in tutta Italia per dire la nostra sulla riforma dell’ergastolo ostativo. E non ho mai smesso di chiedere tutta la verità che ancora oggi ci è negata come familiari delle vittime e come cittadini.

 

Nelle scuole trovo il conforto di tanti ragazzi, incontri pieni di vera passione civile e a tratti anche di commozione. Tra gli allievi della polizia rivedo l’intensità con cui si preparano a intraprendere la professione alla quale mio marito aveva sacrificato tutto.

 

Non mi è bastato. Mi sono fatta coraggio e sono uscita da una sorta di comfort zone nella quale è perfino scontato che la mia esperienza susciti empatia. E allora ho anche cercato le occasioni in cui fosse possibile un confronto diretto con i detenuti.

 

Alcuni li ho anche coinvolti in un progetto di recupero che passa per le attività nel Giardino della Memoria che sono riuscita a realizzare a Capaci, vincendo mille resistenze ammantate da difficoltà burocratiche sempre in agguato. Ma sono andata anche di fronte ai detenuti nelle carceri di massima sicurezza, sperando di istillare il dubbio. Gli ho raccontato di come i miei figli possano procedere fieri senza mai dovere abbassare lo sguardo. E ho chiesto, se da padri, possano dire altrettanto dei loro.

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