Addis Abeba non c’è più. Al suo posto c’è un ciclopico esperimento di pianificazione urbana. Caterpillar al lavoro instancabili e minacciosi. Condomini che spuntano come funghi. Grattacieli che svettano qui e là senza ascensori, con facciate a vetri blu e oro. Dove prima c’erano piazze, ora ci sono voragini e crateri. Dove prima c’erano orti e case, ora ci sono sottopassi e sopraelevate. Dove prima c’erano boschi, adesso ci sono le “gate communities”, spesso fatte di casette prefabbricate made in Sudafrica. Dove c’erano baracche, adesso ci sono centri commerciali nuovi di zecca quasi sempre senza merci né clienti. E nelle vie del centro abitato, ora a quattro corsie, ai pedoni è vietato per legge attraversare la strada.
Cosa sparisce, nasce, si trasforma, e soprattutto come si vive dentro il più compulsivo ed autoritario cantiere africano? La cosa più ovvia sarebbe chiederlo a chi ci abita. Per farlo però bisogna aggirare la vigilanza militare che presiede i tanti siti in demolizione e proibisce il contatto con gli sfollati. Ecco: quante sono, intanto, le persone che sono già state costrette a lasciare le proprie abitazioni? Non ci sono cifre ufficiali. Si possono solo fare supposizioni: circa duemila baracche, quattrocento case governative e duecento villette anni Settanta sono state demolite per fare spazio alle nuove costruzioni. Immaginiamo che in ognuna di esse il numero delle persone che le abitavano prima della demolizione fosse cinque. Dove sono finite tredicimila persone per lo più povere o poverissime? Incontrarle durante il giorno è impossibile. Di notte però molte di loro si riversano nell’area Mercato dove per pochi centesimi affittano un posto pavimento dove sdraiarsi a dormire nei locali e magazzeni. Behranu è uno di loro, viene qui da due anni e racconta: «Ho perso la casa e hanno disperso la mia famiglia; ma la cosa più grave è non avere un tetto. Sono un autista di autocarri ma senza un indirizzo e una dimora fissa le autorità non mi rinnovano la patente, che è scaduta: e quindi non posso lavorare. Ho perso il mio futuro e quello dei miei figli che non possono più andare a scuola».
Pochissime delle persone sfollate hanno ricevuto in cambio un appartamento in condominio. Per due ragioni: la prima è che solo chi prima viveva in una casa regolarmente accatastata ne ha diritto (quindi non la maggioranza: qui era uso costruirsi la baracca di lamiera da soli); la seconda è che tra gli aventi diritto ovviamente c’è solo chi può pagarsi il mutuo: dunque, di nuovo, una minoranza.
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Ogni tanto anche Agot viene a dormire al mercato e la sua storia è come tante: «Avevamo comprato la terra dai contadini e costruito lì la nostra casa. Il comune ci aveva promesso l’atto di proprietà se avessimo costruito anche la strada. Abbiamo fatto la strada asfaltata, la chiesa e anche la scuola. Abbiamo portato l’elettricità e la fogna. Eravamo circa 200 famiglie e abbiamo avuto la loro parola che non ci sarebbero state demolizioni nella nostra area. Invece oggi nessuna delle nostre case è più in piedi».
Una casa accatastata, un regolare contratto di affitto, una licenza di costruzione, un atto notarile non sono scontati in un paese dove un tempo il regime di Mengistu cancellava la proprietà privata e assegnava le case migliori ai burocrati, mentre oggi il governo federale obbliga gli abitanti di Addis a elevare le loro case a un piano con giardino di almeno altri quattro piani. Ma qui un sacco di cemento costa un terzo di uno stipendio: un professore, ad esempio, prende mille birr al mese, meno di quaranta euro; dove trova i soldi per salire di quattro piani? Se non si posseggono i mezzi, la legge impone l’esproprio forzato e l’assegnazione dei lotti agli investitori che abbatteranno la casa e costruiranno il grattacielo.
Addis non è una città come le altre. O meglio non lo era. Godeva di alcuni primati sorprendenti: la quasi totale assenza di criminalità, nessuna divisione tra quartieri ricchi e quartieri poveri. Le baracche rappresentavano l’80 per cento delle strutture abitative: qui e là, in mezzo, c’erano le sacche residenziali per i ricchi. A Belecha, che abitava in una casa costruita dagli italiani, dopo la demolizione è stata assegnata un’unità nei nuovi condomini costruiti dal governo. È al quarto piano, l’acqua non arriva e c’è una sola stanza da letto, insufficiente per la sua numerosa famiglia. «Prima facevo l’infermiera al Lion Hospital, ma ora non più», dice: «Raggiungere il posto di lavoro con i mezzi di trasporto costa più di quello che guadagno.Ed è troppo lontano per andarci a piedi».
L’obiettivo dichiarato del programma Grand Housing è di costruire annualmente 50 mila condomini, con cemento importato dalla Cina e ferro dalla Turchia, per dare casa al 50 per cento della popolazione che oggi vive negli slum o nelle fatiscenti case governative affittate per tre birr al mese ma senza acqua, senza elettricità, senza servizi.
Lo slum è lo spazio in cui ogni centimetro viene usato per esigenze primarie: mangiare, dormire, fare sesso, evacuare. Ma ad Addis Abeba è anche lo spazio delle pratiche solidali, delle alternative alla mancanza di servizi e infrastrutture; ed è lo spazio del riciclo, della crescita delle economie informali, delle istituzioni spontanee, dell’innovazione politica, della tolleranza, dell’accesso al credito per tutti, delle opportunità occupazionali e altro ancora. Ad esempio, il rammarico di Nigusse è essere stato allontanato dai suoi vicini: senza l’associazione di cui faceva parte e a cui contribuiva da 16 anni, chi pagherà e organizzerà il suo funerale? In Etiopia il funerale è una festa dove tutti sono invitati a un banchetto che dura tre giorni: familiari, amici, conoscenti, sconosciuti.
La trasformazione violenta di Addis porta a chiedersi che cosa sia, in fondo, l’architettura: qui, è senz’altro un processo di trasformazione dello spazio, degli stili di vita, dell’economie, dei consumi energetici, della mobilità territoriale, delle culture e tradizioni, delle opportunità legate al lavoro, degli scambi tra genti e tanto altro. E se già oggi il 50 per cento della popolazione mondiale vive in un insediamento urbano, nel 2050 si toccherà il 75. Nonostante ciò, molti progettisti sono convinti della loro “neutralità” professionale e si trincerano dietro un sapere tecnico che forse limita un po’ le loro funzioni e responsabilità. Invece è strettissimo il rapporto tra l’architettura e la gestione politica, la coesione sociale, la sicurezza alimentare, le pari opportunità, la crescita economica, i diritti umani. E Addis Abeba, forse, ne è l’esempio più evidente.