Visioni
7 agosto, 2025Articoli correlati
È morto a 94 anni il maestro del bianco e nero e testimone del Novecento. Con il suo obiettivo ha raccontato l’Italia degli ultimi, delle fabbriche, dei manicomi e dei paesaggi quotidiani
È morto Gianni Berengo Gardin, e con lui se ne va una delle ultime voci libere e profonde della fotografia italiana. Non solo un grande fotografo, ma un uomo capace di costruire, con ogni scatto, un pensiero. La sua è stata una vita attraversata da immagini che hanno saputo restituire dignità agli ultimi, bellezza alle cose ordinarie. Berengo Gardin non ha mai cercato lo spettacolo, ma l’ oggettività E quella verità, a volte ruvida, spesso poetica, l’ha trovata nell’Italia che cambiava, nei manicomi che chiudevano, nei bambini rom, nei lavoratori, nei treni, nelle calli veneziane, nelle fabbriche, nei matrimoni. Non amava definirsi artista. Diceva: “Io sono un fotografo, punto.” Ma nel suo pudore c’era tutta la grandezza di chi ha fatto dell’umiltà un metodo e del rigore una firma. Il suo bianco e nero, mai estetizzante. Fotografava da dentro, da vicino, da umano.

Nato a Santa Margherita Ligure nel 1930, cresciuto a Venezia, ha viaggiato ovunque ma è sempre rimasto fedele a una certa idea di fotografia documentaria: un linguaggio silenzioso ma potente, capace di raccontare il mondo senza alterarlo. È stato il fotografo della gente, non dei divi. Con Ghirri e Basilico ha condiviso l’epoca d’oro della fotografia italiana, ma ha sempre conservato un’identità autonoma, resistente alla moda e alle lusinghe del mercato. Amava i libri, e ha pubblicato oltre 250 volumi, alcuni dei quali rimarranno nella storia dell’editoria fotografica. Con Franco Basaglia ha documentato la fine dei manicomi. Con Olivetti ha narrato il rapporto tra industria e paesaggio. Con il suo progetto sulle Grandi Navi ha dimostrato che la fotografia può ancora essere uno strumento civile. E anche quando raccontava la felicità non era mai retorico: c’era sempre, dietro ogni immagine, la complessità del reale. Fino all’ultimo ha difeso la coerenza del suo sguardo. “Scattare è facile ma vedere è un’altra cosa”. Ci ha insegnato proprio questo: a vedere. Con attenzione, con rispetto, con grazia. Ora che se n’è andato, ci restano i suoi milioni di chilometri percorsi in treno, con la Leica sempre al collo, le foto stampate con cura, le pagine ingiallite dei suoi libri. E soprattutto, ci resta il suo modo di guardare. La sua eredità più grande.

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