Dal Conte uno al Conte bis, una sola strategia: tirare a campare. Un esecutivo sempre più diviso al suo interno si rifugia nella propaganda perché non trova soluzioni, mentre si moltiplicano le crisi industriali. E i disoccupati aumentano 

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Nel luglio scorso, poche settimane prima di abbandonare la doppia poltrona di ministro dello Sviluppo economico e del Lavoro per traslocare agli Esteri, Luigi Di Maio aveva liquidato come «una montatura grottesca» la moltiplicazione delle crisi aziendali durante il primo governo Conte. «E che le ho aperte io?», si chiedeva polemicamente l’allora vicepresidente del Consiglio in un’intervista. E infine, come da collaudato copione in casa grillina, Di Maio si assolveva addossando ogni responsabilità per i guai dell’industria italiana su «quelli di prima». Stefano Patuanelli, ora titolare del Mise, ha fin qui evitato di insistere sullo scaricabarile. E si capisce il perché, visto che i Cinque stelle adesso si trovano a governare proprio con «quelli di prima», cioè il Pd.

Al netto delle polemiche, però, il risultato finale non cambia. La propaganda fa premio sulle strategie. In una fase storica di delicatissima transizione per l’economia globale, con una guerra commerciale tra le due superpotenze Usa e Cina che rischia di stritolare l’intera Europa, l’esecutivo di Roma non è in grado di abbozzare una risposta che indichi quantomeno una direzione di marcia per un Paese che vede sgretolarsi il proprio tessuto industriale. Servono a poco le passerelle a Pechino di Di Maio, che come responsabile del Commercio estero, passato sotto l’ombrello della Farnesina, si affida alle fantomatiche virtù taumaturgiche dell’alleanza con la Cina consacrata sulla Via della Seta. Così come resta per ora un’etichetta priva di contenuti il New Green Deal, che dovrebbe rilanciare l’industria nazionale a suon di investimenti verdi.
Vergogne
Ex Ilva, le voci di Taranto: «Noi siamo l’esempio lampante della violazione dei diritti umani»
11/11/2019

Messo di fronte a problemi concreti come quello, enorme, della chiusura dell’Ilva di Taranto con la perdita di almeno 10 mila posti di lavoro e il definitivo naufragio della siderurgia nazionale, il governo di Giuseppe Conte si spacca, peggio si frantuma, dietro una cortina fumogena di slogan che promettono la difesa a oltranza dell’interesse nazionale contro le oscure manovre dello straniero, cioè la multinazionale a trazione indiana Arcelor-Mittal. E così nella confusione generale, tra gli estremisti grillini decisi a farla finita una volta per tutte con l’impianto di Taranto e le sue polveri inquinanti contrapposti ai renziani che manovrano per mettere in campo nuove cordate di acquirenti, l’unico dato concreto di cronaca rimane il grottesco spettacolo di un esecutivo, anzi due, il Conte uno e il Conte bis, che nell’arco di poco più di un anno sono riusciti a fornire ai padroni di Ilva ogni pretesto possibile per sfilarsi da un accordo che li obbliga a investimenti miliardari in un’azienda che viaggia al ritmo di due milioni di perdite al giorno. L’immunità penale per eventuali reati commessi nel risanamento ambientale è stata prima concessa, poi revocata, quindi reintrodotta e infine, pochi giorni fa, di nuovo cancellata. Una girandola surreale che, con buona pace della certezza del diritto, sembra studiata apposta per convincere i grandi investitori internazionali a girare al largo dall’Italia. Adesso Conte corre ai ripari. Apre l’ennesimo tavolo negoziale. Un copione già visto più volte.
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Ennesima conferma che l’orizzonte del governo sulle questioni di politica industriale fatica ad andare oltre le ventiquattro ore, come dimostra anche il caso Alitalia. Di proroga in proroga, il salvataggio si sta trascinando senza che i partner pubblici (Ferrovie e ministero dell’Economia) riescano a formalizzare l’accordo con quelli privati, cioè la famiglia Benetton e gli americani di Delta. Il fatto è che sin dall’inizio l’esecutivo di Roma non ha mai dimostrato di avere un piano per il futuro dell’ex compagnia di bandiera, un’idea concreta di quale debba essere la mission del gruppo in un mercato come quello del trasporto aereo sempre più dominato da colossi dalle spalle ben più solide dell’Alitalia dai conti in profondo rosso. Anche in questa vicenda, come già per l’Ilva, l’unica vera bussola della politica sembra essere quella elettorale: tutelare i posti di lavoro per non perdere voti.
Vale lo stesso discorso per i dossier sulle aziende in difficoltà che si accumulano al ministero dello Sviluppo economico. Qui la questione decisiva non è tanto stabilire se i tavoli di crisi siano aumentati o diminuiti rispetto a tre o cinque anni fa, un tema su cui si è concentrato il ministro Patuanelli in un’intervista al Sole 24Ore di fine settembre. Per la cronaca, in base di dati più aggiornati, le procedure aperte sono 146. Il problema vero, invece, è che la trattativa con la mediazione del Mise si risolve positivamente per meno di un’impresa sui tre. Nella gran parte dei casi, i vertici romani tra i rappresentanti del governo, sindacati e imprenditori diventano semplicemente un trampolino di lancio per arrivare alla cassa integrazione, che congela la situazione assicurando temporaneamente un reddito ai lavoratori.

Solo misure tampone, quindi. Nulla che assomigli a una soluzione definitiva. Niente che garantisca un futuro ad aziende giunte a un passo dalla chiusura. Succede quindi che in un mercato del lavoro ancora imballato, con un tasso di disoccupazione che oscilla intorno al 10 per cento, continua a crescere il numero degli ex occupati che finiscono nel limbo della cassa integrazione. Un esercito di senza lavoro di fatto, che però non vengono censiti come tali dalle statistiche ufficiali. A ben guardare si scopre così che nel mese di settembre le richieste di cassa integrazione sono aumentate del 58 per cento rispetto allo stesso mese del 2018. Il trend è negativo anche se si considerano i primi nove mesi del 2019: più 16 per cento in confronto allo stesso periodo dell’anno scorso.
In prospettiva questi numeri non sembrano destinati a migliorare, quantomeno nel breve periodo. Interi settori vanno incontro a fasi quantomeno di incertezza.

L’annuncio del recente accordo tra Fca e Peugeot apre per esempio interrogativi sui nuovi assetti produttivi del supergruppo che nascerà dall’alleanza. In altri termini: le attività italiane sono destinate a perdere di peso? Ci saranno tagli negli stabilimenti ex Fiat nella Penisola? Va tenuto conto che per il settore automotive, nel suo complesso, si prospettano anni difficili. Visto il peso di queste aziende per l’economia nazionale, anche in questo caso il governo dovrebbe elaborare in fretta un abbozzo di politica industriale. Al momento non se ne vede traccia. Così come manca un piano di intervento per attenuare la caduta della grande distribuzione, altro comparto in grave difficoltà. Dopo il disastro di Mercatone Uno (1.800 dipendenti senza lavoro), in cui ha gravi responsabilità (per mancata vigilanza) anche il Mise, nei giorni scorsi il gruppo Conad ha annunciato che ci sono 3.100 dipendenti di troppo nei supermercati col marchio Auchan acquistati nelle settimane scorse. Non è detto che tutti perdano il lavoro. L’azienda si è dichiarata pronta a offrire non meglio precisate (finora) “soluzioni occupazionali diverse”. Il governo ha invece annunciato, come da copione, di seguire da vicino la situazione. Si vedrà.

Di certo, al momento, la parte più appetitosa della torta sembra quella immobiliare. Anche i 1.600 punti di Auchan in Italia sono infatti passati di mano. Li ha comprati Raffaele Mincione, che darà in affitto a Conad i negozi e i supermercati. Proprio lui, Mincione, il finanziere, già in affari col Vaticano, che l’anno scorso ingaggiò come legale Giuseppe Conte. Poi diventato capo del governo che ora dovrebbe mediare a tutela dei lavoratori ex Auchan.

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