Amiamo i reporter. Ci portano, per usare una espressione di Walter Benjamin, le "narrazioni dei marinai", che ci affascinano per due motivi: raccontano di terre che non vedremo mai, e di fatti di cui non saremo mai testimoni ma che loro, i reporter, hanno osservato dal vivo. I reporter costituiscono la nostra unica chance di guardare da vicino terre lontane ed eventi remoti, grazie alla loro mediazione, grazie ai loro occhi. Il nostro affidarci al loro sguardo dà a loro, ai reporter, una responsabilità enorme, tale che noi, gente comune, che pure amiamo raccontare storie (storie però, per usare nuovamente un'espressione benjaminiana, da sedentari "contadini") di rado conosceremo. Poiché i reporter ci portano notizie di paesi che non visiteremo e di eventi che non si ripeteranno, dobbiamo affidarci alle loro parole; e non ci è possibile verificare la veridicità delle loro relazioni. Per trarre beneficio da questi racconti dobbiamo anzitutto aver fiducia in loro. E dunque forse il più importante degli obblighi del reporter nei nostri confronti, pubblico riconoscente, è la veridicità: il trattenersi non solo da menzogne e invenzioni, ma anche dal fingere di sapere più di quanto non sanno.
Ryszard Kapuscinski aveva uno sguardo più acuto dell'enorme maggioranza dei marinai che solcano gli oceani, e riportò a casa dalle sue avventure messi infinitamente più ricche di ogni altro. Era capace come pochi di raccontare di ciò che aveva visto, in modo colorato e convincente, sapeva inchiodare l'attenzione del lettore dalla prima frase, sapeva tenerlo in tensione fino all'ultimo punto. Milioni di abitanti del pianeta hanno ascoltato i suoi racconti sull'ascesa e sulla caduta dello scià o dell'imperatore etiope o sui guai del Continente nero, con una sorta di raccoglimento solenne, quasi sacrale; forse in modo non molto diverso da come gli antichi ascoltavano narrare del coraggio sovrumano di Achille o delle bizzarre avventure di Ulisse. E infatti, esausti del fracasso della finzione bramiamo ciò che finzione non è; incapaci di distinguere la verità dall'invenzione guardiamo ai reporter con i resti di una speranza migliaia di volte tradita: i testimoni oculari, coloro che 'erano là', che hanno osservato, che hanno toccato e annusato - e che dunque hanno avuto delle esperienze, come si dice, "sulla propria pelle". Lo stesso Kapuscinski ripeteva, come la sua conoscenza originasse dal "viaggiare", ma anche da un tipo di esperienza del tutto diversa da quella accessibile a noi, suoi lettori; in essa non vi era nulla di inventato, di architettato, nulla di soggettivo. Essa ci mostra il mondo come è, differenziandosi in maniera radicale dalla pseudoconoscenza abborracciata con brandelli di impressioni superficiali raggiungibile da un turista o un vacanziere.
Ma, prima di tornare a parlare del libro di Artur Domoslawski 'Ryszard Kapuscinski. Non fiction', lasciatemi citare un altro autore polacco, Pawel Zajas. Dice Zajas che Kapuscinski, nel riprodurre quel che vedeva, offriva al lettore "il patto di dargli la verità più pura della verità"; in altre parole egli "applicava l'etichetta 'vero' alle sue finzioni". Dunque di cosa si occupava? Di farsi bello? Di abbindolare il lettore? Prometteva un tesoro che non possedeva? O forse il contrario: usando i suoi strumenti cognitivi da storico o etnografo di razza, adoperava nel relazionare le sue scoperte l'arte della narrazione, al fine di placare la bramosia di verità in un modo più completo e più a misura di un essere umano multiforme e indefinito, e dunque in fin dei conti in modo più onesto di quanto non potessero osare dotti storici, impediti dall'imperativo professionale di ricercare la verità univoca ed eterna? Come lo stesso Kapuscinski annotava (e Artur Domoslawski ne ha fatto il motto della propria escursione da reporter), "nella gente persiste il bisogno di frequentare, almeno tramite la lettura, qualcuno di concreto, unico, che abbia un nome, un viso, delle abitudini, dei desideri". È appunto il romanzo che, come sostiene Milan Kundera, ci consente di guardare da vicino la realtà della condizione umana: la non esistenza della verità assoluta. E il fatto che "il mondo è ricco di significati", e che invece di una verità assoluta esiste un brulicare di verità relative che si contraddicono l'un l'altra, e che l'unica certezza è la saggezza dell'incertezza. "Lo spirito del romanzo è lo spirito della complessità. Ogni romanzo dice al lettore: le cose sono più complesse di quanto tu non pensi". Il romanzo rivela che "oltre a un minimo margine di verità (non sussistono dubbi sul fatto che Napoleone abbia perduto la battaglia di Waterloo), si estendono le sconfinate distese di tutto ciò che è approssimativo, inventato, deformato, semplificato, esagerato, frainteso; l'infinito dominio di non-verità che copulano fra loro, si moltiplicano come ratti, rendono immortali". La ragion d'essere del romanzo è gettar luce sul "mondo della vita quotidiana" ed evitare "l'oblio dell'essere" heideggeriano. Per servirsi ancora della terminologia di Kundera, Kapuscinski nei lunghi decenni delle sue peregrinazioni giornalistiche si era impegnato a "strappare il sipario" di verità assolute e di pregiudizi scambiati per realtà. Ha scritto Salman Rushdie: "Nei libri su Hailé Sellasié e sullo scià le descrizioni di Kapuscinski (no, le sue reazioni) fanno ciò che solo l'arte può fare: danno le ali alla nostra immaginazione".
Nel libro, che Domoslawski presenta nel titolo come 'Non fiction', quindi narrazione non romanzesca, e un'opera in un ambito in cui Kapuscinski è stato un pioniere e un maestro, l'autore individua come terreno della escursione conoscitiva la vita e la produzione di un altro giornalista. E dunque un doppio "strappare il sipario", elevato alla seconda potenza, un fenomeno raro o forse unico in letteratura, irto di rischi al quadrato: la promessa di un moltiplicarsi dei profitti conoscitivi per i lettori, e un'occasione da non perdere per i teorici della letteratura, in lotta con l'enigma insopportabile, e perciò allettante, dei suoi rapporti con la realtà alla cui creazione contribuisce, essendo al tempo stesso da essa creata. Per gli uni e per gli altri la promessa di un'avventura seducente. Prevedo un'interminabile catena di dotte dispute accademiche e di non accademici motteggi, e di affermazioni che in modo più o meno marcato aspirino all'assoluto, restando peraltro non meno ambigue a dispetto di ciò che asseriscono.
Nel momento in cui scrivo il 'New York Times' informa che un avvocato del Dipartimento della Giustizia americano ha rifiutato l'accusa di 'cattiva condotta professionale' (professional misconduct) intentata dalla Commissione sull'Etica Legale contro altri due avvocati, autori di una sentenza che, ai tempi dell'amministrazione Bush, legalizzava l'uso della tortura nei confronti di sospetti terroristi. Nella motivazione si afferma che la Commissione ha "ignorato l'atmosfera da stato d'emergenza" che aveva accompagnato la redazione del documento incriminato. "Otto anni dopo la sua redazione", si dice nel testo, "il contesto in cui questa sentenza è stata emessa è scomparso dal nostro campo visivo". Ecco: un bravo giornalista, come ogni onesto ricercatore di verità, non perde mai di vista il contesto, ma anzi, quando altri lo hanno smarrito, si sforza di farlo riemergere dall'oblio.
'Il reporter, l'uomo, i suoi tempi', è il sottotitolo che Domoslawski assegna al suo studio su Kapuscinski. E nota come il suo maestro abbia creato "un linguaggio proprio, un nuovo stile, un ritmo poetico delle frasi, un modo originale di rappresentare gli eventi". Rushdie ha indicato in cosa ciò consista: "La scrittura di Kapuscinski, sempre concreta e piena di osservazioni acute, incanta con il miracolo dei significati legati a ogni dettaglio". Domoslawski cita Kapuscinski stesso: "Il reporter deve provare tutto sulla propria pelle".
Ma c'è un problema. Nell'atelier dell'artista dell'arte della vita si trova anche un ospite non invitato: il destino, ossia 'il tempo in cui l'artista vive'. È il destino a tracciare una frontiera fra il sogno e ciò che è possibile. Ma nello stesso atelier si muove anche un altro attore: il carattere dell'artista. È lui ad operare le scelte fra le varie opzioni offerte dal destino. Almeno ai nostri tempi il destino è solito incedere per vie traverse e dare in smanie spietate. Se, nonostante ciò, un essere umano è in grado di mantenersi lungo una linea relativamente diritta è merito del suo carattere, e non della fragilità o della noncuranza del destino. Kapuscinski era quel proverbiale gatto di Kipling che andava per la propria strada. Erano le sue convinzioni, il suo disgusto per l'inganno e la menzogna, la repulsione per tutto ciò che umilia l'uomo negandogli il diritto all'umanità, a indicare a ogni svolta del destino la strada che ha percorso.
Senza passione è difficile immaginare un grande reporter. Ma la passione da sola non sarebbe bastata a questo reporter per nascita e vocazione, a cui, come scrive il biografo, era toccato di vivere "in tempi intricati, in epoche diverse, in mondi svariati". Kapuscinski fece tutto quello che era in suo potere per andare incontro al suo compito/vocazione. Ma anche a ciò che gli rendeva più semplice, oppure possibile, il lavoro: "Un autentico impegno nel Partito, amicizie e contatti ai vertici del potere", come scrive l'autore del libro. Ed è vero che: "Kapuscinski, aveva un'ottima percezione dei rapporti personali, è stato capace di muoversi nei corridoi del Palazzo, di crearsi le condizioni per realizzare i propri sogni professionali". Molti dei suoi lettori preferirebbero che non si fosse insozzato con simili contatti, che se la fosse cavata senza protezioni da parte dei dignitari, che avesse esitato nell'accettare la benevolenza di un potere dalle mani sporche. Ma sarebbero nati allora i suoi libri? E se non ci fossero, come sarebbe più misera la nostra conoscenza del mondo e della vita in esso. Tutti noi abbiamo ricevuto dei benefici da ciò che Kapuscinski è stato in grado di rintracciare, osservare, annotare e lasciarci in eredità. Grazie ad Artur Domoslawski sappiamo anche il prezzo che 'i tempi in cui ha vissuto' avevano costretto questo reporter instancabile a pagare e che genere di pagamento abbia accettato per raccogliere le sue conoscenze e per forgiarle in umana saggezza. Il prezzo che forse gli è stato più doloroso pagare è stato la scia infinta di disillusioni e di speranze infrante, e l'amaro sedimento da queste lasciate: il senso della propria impotenza, della fragilità della parola di fronte al male.
Tygodnik Powszechny - L'espresso