Giustizia e informazione

Il prete dei talk show lancia insulti omofobi al nostro giornalista. E ora è stato condannato

di Telesio Malaspina   15 febbraio 2024

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Simone Alliva raccontò dei commenti di Radio Maria al terremoto di Amatrice. Per tutta risposta, Ariel S. Levi di Gualdo diffuse un dossier infamante sul suo conto. Querelato, dopo 8 anni la sentenza

Il Tribunale di Siracusa ha condannato Ariel S. Levi di Gualdo, presbitero e teologo, imputato per diffamazione nei confronti del nostro giornalista Simone Alliva, al risarcimento danni da stabilire in sede civile, più il pagamento delle spese processuali. Una storia, questa, che inizia il 30 ottobre 2016: sono passate dodici ore dal terremoto di Amatrice che ha sconvolto l’Italia. Su Radio Maria si alza una voce: «Dal punto di vista teologico questi disastri sono una conseguenza del peccato originale, sono il castigo del peccato originale, anche se la parola non piace. […] Arrivo al dunque, castigo divino. Queste offese alla famiglia e alla dignità del matrimonio, le stesse unioni civili. Chiamiamolo castigo divino».

 

Ai microfoni Giovanni Cavalcoli, frate domenicano e sacerdote. L’Espresso per primo, tramite il suo giornalista Simone Alliva, riporta la notizia che ha un'eco internazionale. Radio Maria si scusa e sospende la trasmissione del parroco. L'Italia protesta. Le uscite di Cavalcoli imbarazzano anche la Santa Sede che ordina restrizioni con proibizione di predicare, confessare, celebrare la Santa Messa. Mentre Angelo Becciu, sostituto alla segreteria dello Stato Vaticano commenta: «Sono affermazioni offensive per i credenti e scandalose per chi non crede». Dopo un mese, Alliva riceve dei commenti sui propri profili social che segnalano un link che rimanda a un blog dal titolo: “L’Isola di Potamos”. I post riportano le sue foto, le sue generalità e l’università alla quale al tempo è iscritto. Titolo: «È terminato l’embargo per Padre Giovanni Cavalcoli, ma voi boicottate la Lumsa, università pseudo cattolica che accoglie le “serpi in seno” che sputano sul piatto dove mangiano».

 

Il post viene presentato sotto forma di trilogia e porta la firma del presbitero e fondatore delle Edizioni L’Isola di Patmos. Spesso protagonista di talk televisivi come Diritto e Rovescio su Rete 4. Alliva viene raccontato come: «Un “religioso” della suprema “neo-chiesa del gender” . […] Il suo spirito malvagio, forse unito anche all’intima gioia d’aver recato grave danno, dolore e disagio a un uomo timorato di Dio».

 

Nel secondo articolo della trilogia Alliva viene preso di mira per aver vinto una borsa di studio. «Questa università si mette in casa un ideologo della cultura del gender e dell’omosessualismo più radicale [...] lo agevola pure per le spese di studio» Il terzo articolo invece si fanno pesanti allusioni sessuali. 

 

Simone Alliva decide così di querelare per diffamazione presso il Tribunale di Roma. Un processo durato anni, con innumerevoli rinvii per ricerche dell’imputato che per anni non è stato reperito presso il proprio indirizzo di residenza, nonostante sia stato protagonista di talk televisivi. E ancora rinvii per legittimo impedimento basati su motivi di salute decisamente discutibili: la prima una congiuntivite. La seconda un rimpolpamento degli zigomi. 

 

Dopo tutti questi anni è giunta la sentenza. «Ringrazio la mia avvocata Francesca Rupalti e l'avvocato Lele Russo che insieme a Rete Lenford mi hanno sostenuto nei momenti in cui volevo francamente mollare il processo», commenta Alliva «Questa è una vicenda che non riguarda solo me parla di un sistema che punta alla corrosione: ti intimorisce, ti porta a pensare due volte prima di raccontare un fatto. Qualcosa di molto solido dentro questo tempo, soprattutto per coloro che fanno informazione e che si occupano di diritti e identità violate. Sono stati anni molto difficili di frenate e attacchi abbastanza feroci. Ci sono due livelli dentro questa storia. Uno è burocratico: ho speso in Tribunale moltissimo del mio tempo e delle mie risorse per questa causa. Il secondo livello è quello personale: quell'ansia che ti accompagna per tutto il processo e in qualche modo una sensazione di solitudine che sempre si presenta di fronte a questo tipo di intimidazione. Per anni ho scelto di non dare pubblicità alla vicenda, anche per evitare di fare da cassa di risonanza e quindi ottenere lo scopo che è esattamente quello che vuole chi provoca. L'ho fatto per senso civico. Non è stato facile omettere in tutti questi anni le minacce, gli intralci. Per fortuna ho avuto sempre al mio fianco due avvocati meravigliosi e una redazione molto attenta. La giustizia è stata lentissima ma alla fine ha riconosciuto che il danno era palese. Il mio pensiero va a chi tutti i giorni, da collaboratore o free lance, riceve questo tipo di intimidazioni e non ha le risorse per contrastarle. Otto anni per riconoscere un reato di diffamazione sono il tempo di mezzo di una vita».