Medio Oriente in fiamme

In Iran il regime è all'angolo. Ed è per questo che attacca le donne

di Chiara Sgreccia   29 aprile 2024

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Iran, repressione

La Repubblica islamica ha ridato impulso alla repressione proprio nel giorno in cui ha risposto all’offensiva di Israele sul consolato di Damasco. Uno scontro che rivela la debolezza di entrambi i governi

Una donna cade a terra, in preda alle convulsioni, dopo essere stata fermata dalla polizia morale. Ai passanti che cercano di calmarla dice che le hanno confiscato il cellulare, vicino alla fermata della metro Tajrish, nel Nord di Teheran, come riporta l’agenzia di stampa Afp. In un altro video si sentono le urla strazianti della folla che circonda un furgoncino bianco, mentre gli agenti trascinano qualcuno dentro. In alcuni momenti sembra di distinguere il rumore dell’elettricità che passa attraverso i corpi per immobilizzarli. E poi ancora grida, abusi. Ma non c’è silenzio: è diventato ormai impossibile fermare la rivoluzione culturale che il movimento “Donna, Vita, Libertà” ha innescato in Iran dal settembre del 2022. Quando Mahsa Amini, una ragazza poco più che ventenne, è morta, dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per aver indossato l’hijab in modo inappropriato, probabilmente a causa delle violenze subite.

Una donna cade a terra, in preda alle convulsioni, dopo essere stata fermata dalla polizia morale. Ai passanti che cercano di calmarla dice che le hanno confiscato il cellulare, vicino alla fermata della metro Tajrish, nel Nord di Teheran, come riporta l’agenzia di stampa Afp. In un altro video si sentono le urla strazianti della folla che circonda un furgoncino bianco, mentre gli agenti trascinano qualcuno dentro. In alcuni momenti sembra di distinguere il rumore dell’elettricità che passa attraverso i corpi per immobilizzarli. E poi ancora grida, abusi. Ma non c’è silenzio: è diventato ormai impossibile fermare la rivoluzione culturale che il movimento “Donna, Vita, Libertà” ha innescato in Iran dal settembre del 2022. Quando Mahsa Amini, una ragazza poco più che ventenne, è morta, dopo essere stata arrestata dalla polizia morale per aver indossato l’hijab in modo inappropriato, probabilmente a causa delle violenze subite.

 

«Le strade della Repubblica islamica sono diventate un campo di battaglia contro le donne e i giovani», scrive su Instagram Narges Mohammadi, premio Nobel per la Pace 2023, dal carcere di Evin in cui è detenuta, nel giorno del suo compleanno, il 21 aprile. «Un’ora fa, un’altra ragazza iraniana, Dina Ghalibaf, è arrivata in cella con lividi e segni di molestie sessuali. Il governo religioso autoritario sta conducendo una guerra totale contro tutte le donne. In tutte le strade del Paese. Chiedo al mondo intero di fermare questa barbarie che è l’espressione vergognosa e abominevole dell’apartheid di genere», aggiunge la difensora dei diritti umani a commento del video in cui ricostruisce i soprusi delle forze dell’ordine, tornati a moltiplicarsi per le strade della Repubblica Islamica, per invitare tutte a rendere pubbliche, condividere, inviare le testimonianze di violenza: «Lunga vita alla resistenza. Viva la libertà. Lunga vita alle invincibili donne dell’Iran».

 

 

 

«Gli attacchi diretti che Iran e Israele hanno portato avanti, dopo anni di guerra per procura, sono la dimostrazione della debolezza dei loro governi», commenta il professore di Relazioni internazionali del Medio Oriente all’Università di Trento, analista associato dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, Pejman Abdolmohammadi. A proposito della rappresaglia che il Paese del primo ministro Benjamin Netanyahu ha condotto contro quello del presidente Ebrahim Raisi, il 19 aprile, quando la popolazione della città di Isfahan, nel centro dell’Iran, ha sentito le forti esplosioni causate dai missili israeliani che avrebbero danneggiato il sistema di difesa antiaereo S-300 acquistato dalla Russia e posto a protezione del sito nucleare di Natanz, rimasto, però, intatto anche secondo l’Agenzia internazionale dell’energia atomica.

 

«Entrambi i sistemi politici sono arrivati a un punto in cui non possono più tirarsi indietro. Anche se l’interesse dei singoli governi non sarebbe quello di accrescere la tensione, ormai le condizioni contestuali in cui si trovano, complice la debolezza del presidente statunitense Joe Biden, impediscono la de-escalation», aggiunge il professore, secondo cui, per un breve periodo, la guerra tra i due competitor del Medio Oriente tornerà a essere di proxy, cioè per procura, come dimostrano i raid degli ultimi giorni di Israele nel Sud del Libano o delle milizie sciite alle basi americane in Iraq. Ma in poco tempo gli attacchi saranno di nuovo diretti, anche a causa della preoccupazione per l’arma nucleare. «Che Israele ha, anche se dichiara il contrario. Paura che cresce visto che a Oriente si sta creando una coalizione pericolosa di regimi totalitari: Cina, Russia e Repubblica islamica. Ma il mondo liberal-democratico doveva pensarci prima, quando durante la “dottrina Obama” (periodo precedente all’accordo sul nucleare iraniano del 2015, ndr) sorrideva a quelli che venivano considerati riformisti, passando sopra alla repressione del governo iraniano nei confronti del suo popolo. È ora di chiudere con il doppio standard: come si può pretendere che l’Iran non punti alla bomba atomica quando il Pakistan, Stato confinante, ce l’ha? E perché i leader del G7 hanno condannato l’attacco di Teheran a Israele, ma non quelli di Netanyahu? Non esistono più i buoni e i cattivi in assoluto, dobbiamo tentare di ripristinare un ordine giusto delle cose».

 

Per Abdolmohammadi c’è una distinzione fondamentale da tenere a mente tra la Repubblica islamica, cioè il governo religioso che guida il Paese, e l’Iran, quindi la sua popolazione. Si è vista chiaramente anche durante le ultime elezioni, quelle del primo marzo, quando gli iraniani sono stati chiamati a votare per i due organi rappresentativi del Paese: l’Assemblea consultiva islamica, cioè il Parlamento, e l’Assemblea degli esperti dell’orientamento, autorizzata a interpretare le leggi islamiche. Hanno vinto i conservatori, ma l’affluenza è stata del 41 per cento: «Più dell’80 per cento delle persone di un Paese di oltre 85 milioni di abitanti non condivide le politiche della Repubblica islamica. L’Iran, infatti, combatte questa guerra non grazie a energie e soldati interni, ma attraverso quelli dell’Islam politico globale: Hezbollah, Hamas, jihadisti islamici, Houthi in Yemen. Questo fenomeno è indice della debolezza strutturale del regime, costretto quindi, contemporaneamente, a reprimere anche il dissenso interno. Sono due facce della stessa medaglia, ecco perché procedono di pari passo», spiega ancora il professore: «Per chi crede alla propaganda del governo, l’attacco del 13 aprile a Israele è stato un’espressione di forza, ma per tutti gli altri è stato una testimonianza di fragilità». Anche perché a festeggiare nelle piazze erano gli stessi che reprimono la popolazione.

 

«Se l’Iran dovesse entrare formalmente in guerra le persone non supporterebbero il governo. Perché le persone sono in guerra contro il governo», aggiunge lapidaria Ayda, una giovane iraniana che chiede di restare non identificabile per la sua sicurezza. È in visita in Italia per qualche giorno, ma spera di poter tornare senza intoppi a Teheran: «Il regime utilizza il fatto che l’attenzione internazionale sia rivolta alle tensioni con Israele per accrescere la repressione interna. La guerra serve ai dittatori per legittimare il consenso, è un disastro per i popoli. Noi, come abbiamo già dimostrato, non abbiamo intenzione di arrenderci», conclude. Un pensiero che assume ancora più importanza nel momento in cui la Repubblica islamica è costretta a guardare al futuro, a calibrare le sue mosse nello scacchiere mediorientale, a riflettere su chi sarà il successore dell’attuale Guida suprema, l’ottantacinquenne Ali Khamenei.