Il finanziamento pubblico in teoria è stato abolito. Ma tra rimborsi, contributi e trucchetti vari, le segreterie hanno incassato lo stesso. Incluse quelle che non esistono più, ma continuano a prendere soldi

Tre miliardi di euro. Una cifra stratosferica, equivalente a quasi seimila miliardi delle vecchie lire. Sono i soldi pubblici che i partiti italiani hanno incassato in sedici anni: il tesoro nascosto della Seconda Repubblica. Una cascata di denaro prelevato dalle tasche dei cittadini e trasferito nei forzieri che sostengono la macchina politica del nostro paese. E stiamo parlando soltanto dei fondi elargiti dallo Stato a partire dal fatidico 1994, anno di svolta dopo la tempesta di Tangentopoli, segnato dall'introduzione del sistema maggioritario.

"L'espresso" ha ricostruito i mille rivoli di questo fiume di denaro, che si è modificato secondo gli assetti della politica e delle maggioranze, con formazioni che scompaiono e coalizioni in continua metamorfosi.

In questo inseguirsi di sigle e simboli, dalla contabilità bizantina, resta però un punto fermo, che ha il sapore di una truffa ai danni della cittadinanza. Perché nell'aprile 1993 il referendum per l'abolizione del finanziamento pubblico dei partiti era stato approvato con una maggioranza bulgara. L'iniziativa promossa dai Radicali di Marco Pannella aveva ottenuto il 90,3 dei consensi e avrebbe dovuto decretare la fine delle trasfusioni a vantaggio dei segretari amministrativi di movimenti grandi e piccoli. Invece no: nonostante quel voto, i cittadini hanno continuato a pagare per sovvenzionare la politica. Nel disprezzo della volontà popolare espressa dal referendum, la corsa all'oro di Stato è proseguita ed addirittura aumentata.

Sommando al denaro per gli organigrammi di partito quello per i loro organi: fondi a go-go erogati a favore dei cosiddetti giornali organi di partito, come la cara vecchia "Unità" del Pci-Pds-Ds, il "Campanile nuovo" dell'Udeur di Clemente Mastella, la "Padania" di Umberto Bossi, il "Foglio" di Giuliano Ferrara e le altre decine di testate di partiti e movimenti spesso fantasma o appositamente creati che, nello stesso periodo, da soli, secondo una stima de "L'espresso" , in quella torta di tre miliardi valgono circa 600 milioni di euro. Davvero un bel bottino.

Caccia al tesoro
È quella scatenata dai partiti per mettere le mani sul tesoretto pubblico dei rimborsi: ben 2 miliardi 254 milioni di euro stando al calcolo fatto recentemente dalla Corte dei conti fino alle elezioni politiche del 2008, cui vanno però aggiunti un altro centinaio di milioni maturati nel 2009 grazie alle ultime europee. Come è stato possibile trasferire tanto denaro nonostante il plebiscito del referendum? Aggirando il veto al finanziamento pubblico con una nuova formula: il meccanismo dei rimborsi elettorali. Sempre pubblici, sempre pingui ma formalmente giustificati dalla volontà di tutelare la competizione democratica.

Sulla carta, però, il risarcimento a carico della collettività avrebbe dovuto coprire soltanto i costi sostenuti nella campagna. Ma i furbetti del partitino hanno subito inserito un primo trucco: come per magia, i rimborsi volano lontano dalle regole dell'economia e si plasmano su quelle della politica, per dilatarsi e lievitare. Non si calcolano sulla base dei soldi effettivamente investiti e spesi per spot, comizi e manifesti, ma in proporzione ai voti ricevuti. Quanto per l'esattezza? Una cifra che si è gonfiata senza sosta e senza vergogna, in un'autentica corsa al rialzo. Nelle politiche del 1994, le prime dopo il referendum blocca finanziamenti che segnarono la vittoriosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, il fondo a disposizione è stato alimentato con una formula magica: 1.600 lire per ogni cittadino, non tantissimo perché all'epoca un quotidiano costava 1.300 lire ma che fatti i calcoli produce una cifra monstre. In totale, per Camera e Senato, il contributo toccò la cifra di 90 miliardi 845 milioni di lire. Un bel gruzzolo, non c'è che dire.


La torta che lievita
Ma, si sa, l'appetito vien mangiando, ed ecco negli anni successivi gli alchimisti parlamentari scendere in aiuto dei tesorieri di partito. I maestri del ritocchino si danno da fare e nel 1999 il contributo triplica e passa a 4 mila lire per abitante. E come è accaduto in tutte le botteghe, nel 2002 l'euro ha offerto un'occasione ghiotta per scatenare aumenti selvaggi e poco chiari. Si prevede un 1 euro per ciascun anno di legislatura: in pratica 5 euro per ogni cittadino italiano. Certo, parallelamente si cancella quel 4 per mille che dal 1997 per due anni ha dato ai cittadini la possibilità di destinare ai partiti questa percentuale dell'imposta sul reddito fino a un totale massimo di 56 milioni 810 mila euro. E poi si era ridotto il fattore di moltiplicazione: non più il totale dei cittadini ma solo il numero degli iscritti nelle liste elettorali della Camera.

Anche le modalità di pagamento degli agognati rimborsi subiscono modifiche: non più tutti e subito ma rateizzati nei cinque anni di durata della legislatura. Con una fondamentale postilla: il blocco in caso di scioglimento anticipato. Niente più parlamento, niente più quattrini. Una misura ispirata dalla frequenza delle elezioni nostrane, che viene però considerata troppo severa dalle segreterie di partito. E difatti nel 2002 aboliscono l'interruttore: il finanziamento si incassa anche se i parlamentari decadono prima. Una farcitura a doppio strato: consente alle rate dei vecchi rimborsi milionari di sovrapporsi a quelle altrettanto ricche portate in dote dalla nuova legislatura. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, con effetti paradossali. Come bene dimostrano i rimborsi della quindicesima legislatura aperta nel 2006 e finita nel 2008 che continueranno ad essere incassati dai partiti fino al 2011 e si sommeranno a quelli della sedicesima che dovrebbe durare fino al 2013. Ci sono partiti, come i Verdi, Rifondazione, i Comunisti italiani che non sono più in Parlamento ma vengono ancora sovvenzionati dagli italiani.

Di astuzia in cavillo, le coalizioni hanno divorato oltre 2 miliardi 300 milioni di euro, frutto non solo dei rimborsi per le elezioni di Camera, Senato e Parlamento europeo, ma anche per quelle regionali. La Finanziaria del 2008 ha promesso le forbici: un taglio del dieci per cento su questi fondi. Che però si fatica a seguire nella loro destinazione finale, soprattutto da quando la competizione è tra blocchi di alleanze.

Chi ha incassato di più? Secondo la stima che "L'espresso" ha elaborato spulciando i piani di ripartizione stilati dalla Tesoreria della Camera e i bilanci annuali delle forze politiche, a fare la parte del leone è stato proprio colui che da sempre sostiene di essere sceso in campo per affrancare gli italiani dai partiti-parassiti: l'attuale presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. La creatura da lui fondata nel 1994, Forza Italia, risulta infatti in testa alla lista dei beneficiati con oltre 638 milioni di euro di rimborsi elettorali incassati, pari a mille 235 miliardi di lire.

Il calcolo è semplificato dal fatto che nel Pdl i conti restano separati: Fi e An si spartiscono le elargizioni pubbliche in modo netto. Più complesso decifrare le geometrie finanziarie della sinistra. In tre anni il Partito Democratico ha maturato ben 253 milioni di euro, frutto soprattutto delle ultime politiche. In più ci sono quelli del Pds-Ds con 184 milioni di euro alla voce "contributi dello Stato per rimborso delle spese elettorali". Troppo poco, è evidente, ma a questa cifra ci sono da aggiungere le quote Ds nei fondi per le coalizioni di centrosinistra e soprattutto per l'Ulivo: ma i rami della pianta di sinistra sono così intricati che nessuno riesce a distinguerne i colori.

Anche la tesoreria del partito ha replicato alla richiesta de "L'espresso" allargando le braccia. E che si tratti di cifre considerevoli lo testimoniano le posizioni di assoluto rililevo conquistate nella nostra graduatoria dalle coalizioni di centrosinistra come L'Ulivo e L'Ulivo per l'Europa che insieme hanno totalizzato oltre 260 milioni. In casa Fini prima delle ultime turbolenze era invece facile fare i calcoli: 237 milioni. Al settimo posto c'è poi l'Udc di Pier Ferdinando Casini con i suoi quasi 114 milioni, seguita da Rifondazione comunista che, a dispetto delle traballanti fortune elettorali che l'hanno vista sparire dalla scena parlamentare nel 2008, in tre lustri ha raccolto 105 milioni di euro, mentre Lega e Margherita vantano rispettivamente 102 e 85 milioni di euro.

Cifre ragguardevoli che si attestano sopra i 72 milioni iscritti nei bilanci dell'Italia dei valori e che doppiano i 35 dei Verdi, altri desaparecidos in Parlamento. Si può infatti anche non avere rappresentanti alle Camere ma, incredibilmente, riscuotere lo stesso i rimborsi pubblici. Se per farsi eleggere serve più del 4 per cento dei suffragi, per incassare è sufficiente un modesto 1 per cento. Come è capitato alla Destra di Francesco Storace e Daniela Santanché che, nonostante sia restata fuori con il 2,4 per cento dei voti, sta intascando oltre 6 milioni di euro.

Viva la differenza
Fondare un partito e presentarlo alle elezioni è infatti sempre un grande affare. Il denaro impegnato in spese elettorali è un investimento sensazionale. Qualche cifra: a fronte dei 2 miliardi e 254 milioni di euro di rimborsi erogati dal 1994 al 2008, secondo l'indagine della Corte dei conti le forze politiche hanno speso solo 579 milioni di euro. In pratica ci hanno guadagnato 1600 milioni: il che vuol dire (vedere tabella) che i soldi investiti nella campagna elettorale hanno avuto un rendimento di oltre il 389 per cento, con punte massime del 959 registrate alle politiche del 2001. Con qualche partito più bravo di altri. Il Pdl che nel 2008 ha dichiarato spese elettorali per 68 milioni 475 mila euro ha maturato rimborsi per più di 200 milioni di euro con un guadagno di oltre il 200 per cento. Mentre il Pd che ha speso 18 milioni 418 mila euro, riscuoterà 180 milioni con un guadagno di circa il 1.000 per cento. Un vero record.

Dati choc che smascherano l'effettiva natura di quelle erogazioni: altro che rimborsi, è sempre quel finanziamento dei partiti tout court che è sopravvissuto al referendum. Lo sottolinea la Corte dei conti nel dossier sui consuntivi delle spese delle forze politiche per le elezioni del 2008. Queste cifre, hanno sentenziato i magistrati contabili, dimostrano "che quello che viene normalmente definito contributo per il rimborso delle spese elettorali è, in realtà, un vero e proprio finanziamento".

Prelievo quotidiano
È quello per tanti anni consumato da molti dei cosiddetti organi di partito.
Un altro pozzo senza fondo alimentato dal dipartimento per l'Editoria della presidenza del Consiglio e che secondo i dati disponibili sul sito di palazzo Chigi e analizzati da "L'espresso" in sedici anni ha elargito finanziamenti per un totale di 598 milioni di euro. A chi sono andati? In testa alla lista c'è "l'Unità" con quasi 100 milioni di euro. A sorpresa, al secondo posto, con oltre 50 milioni, rifulge la "Padania" dei leghisti di Umberto Bossi, grandi fustigatori della "Roma ladrona", ma non quando si tratta di incamerare pubbliche provvidenze. Seguono "Liberazione" (48 milioni), voce di Rifondazione comunista e "Il Secolo d'Italia", di An (quasi 40 milioni). Dov'è lo scandalo? Anche nel fatto che a ramazzare questi denari ci sono testate di quotidiani e periodici che difficilmente comparirebbero se lo spirito della legge fosse stato correttamente rispettato.

Tra i grandi foraggiati, con oltre 35 milioni c'è "Il Foglio": fondato da Giuliano Ferrara, ha tra gli azionisti pure Veronica Lario, moglie del presidente Berlusconi prossima al divorzio. C'è "Il Denaro" (18 milioni), giornale napoletano diretto da Alfonso Ruffo; "Il Riformista" (14 milioni) fondato dall'ex senatore Antonio Polito ma edito dalla famiglia Angelucci, tra i maggiori imprenditori della sanità privata, il cui capostipite Antonio è stato eletto deputato nel Pdl. E c'è "Libero", altra testata della famiglia Angelucci, che ha incassato circa una ventina di milioni. Anche in questo caso, una legislazione ambigua e volutamente sprecona ha permesso di confondere alti principi democratici e bassi interessi privati. Nel 1990 si stabilisce che per ottenere i fondi basta essere organi di partito o di un movimento con almeno due rappresentanti eletti in Parlamento; poi via via si introducono regole nuove e strambi cavilli come l'apparentamento con almeno un gruppo parlamentare, anche a Strasburgo; o la trasformazione in cooperativa giornalistica. Le regole sono oscure, il fine è chiaro: mettere i soldi in tasca.

Come l'ultima trovata del 2006 che ha totalmente abolito il requisito del collegamento con una rappresentanza parlamentare per i giornali che in passato sono comunque stati organo di partito. In pratica, il privilegio è immortale. È proprio grazie a questi "aggiustamenti" che "Il Foglio" ha potuto attingere ai finanziamenti in quanto organo della "Convenzione per la giustizia", creatura dell'ex presidente forzista del Senato Marcello Pera e del verde Marco Boato. Il "Denaro" invece ha fatto bingo in quanto bandiera di "Europa mediterranea", un'associazione che allineava l'ex ministro Antonio Marzano e l'ex parlamentare Claudio Azzolini. Ma il caso più eclatante resta quello di "Libero", quotidiano fondato nel 2000 da Vittorio Feltri. Questo giornale per accedere ai fondi per l'editoria di partito, a cominciare dal 2003 ha preso in affitto il bollettino "Opinioni nuove"che già riceveva modeste provvidenze in quanto organo del movimento Monarchico italiano. Questo supplemento coronato ha portato in dote a "Libero" i fondi pubblici riservati agli organi di partito. Avanti Savoia, tutto serve per fare cassa.

ha collaborato Francesco Giurato