Dopo gli eccessi dei decenni scorsi il finanziamento pubblico è stato abolito. E ora le forze politiche non sanno come pagare le loro attività. Cronistoria di un'evoluzione che ha reso la politica ancora più personalistica e apre a non pochi rischi per la democrazia

L’avrebbero sbranato. Ma che cosa aveva detto di male Luigi Zanda, quando era tesoriere del Partito Democratico, se non ciò che molti, per non dire quasi tutti i partiti, pensavano? E cioè che «un finanziamento pubblico della politica è necessario». Necessario, diceva, per evitare «il rischio di una politica che non combatte sulle idee ma si è adattata al Web e ai social che presuppongono l’uso di costose piattaforme e di spin doctor…». Ma necessario, soprattutto, alla sopravvivenza dei partiti.

 

L’avrebbero sbranato, dunque. Il senatore Primo Di Nicola, giornalista de L’Espresso esperto nella denuncia delle malversazioni della politica, che aveva anche rivelato su questo giornale gli elenchi dei vitalizi, insistette a chiedere una commissione d’inchiesta sul finanziamento pubblico. La linea del suo Movimento, che ancora partito non era, l’aveva tracciata il fondatore Beppe Grillo. «Se il Movimento 5 Stelle sarà al governo non ci sarà un centesimo pubblico destinato ai partiti», aveva scritto sul suo blog il comico genovese il 4 settembre del 2015.

 

TUTTE LE INCHIESTE SUI CONTI DEI PARTITI - LEGA, PD, FRATELLI D'ITALIA, FORZA ITALIA, MOVIMENTO 5 STELLE

 

Non l’unico, e certamente non il primo, a voler mettere al bando il finanziamento pubblico per la politica. Il copyright è di Marco Pannella, il nemico pubblico numero uno del sistema che con intuizione geniale chiama «partitocrazia». Lo troviamo addirittura, il giorno di Ferragosto del 1997, al Campidoglio con un banchetto intento a distribuire banconote da 50 mila lire a persone che si sono messe diligentemente in fila. «Restituzione del bottino», la chiamano i radicali ufficialmente. Mentre Grillo ancora è ben lontano dal distruggere i computer sul palco, come farà nel 2000.

 

La forma di protesta è clamorosa e scioccante. Ma perfino comprensibile, per come sono andate le cose. Il referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti che i radicali e il comitato di Mario Segni hanno promosso nel 1993, mentre infuria Tangentopoli, ha avuto il 90 per cento dei consensi. Ma nonostante questo in Parlamento hanno fatto il gioco delle tre carte, come con il ministero dell’Agricoltura abolito anch’esso con referendum ma rimasto in vita solo cambiandogli il nome: Politiche Agricole. Il quesito referendario passato con il 90 per cento abolisce i contributi ai gruppi parlamentari previsti con la legge del 1974. Siccome però quei contributi sono erogati dalla Camera e dal Senato, e per l’autodichìa le Camere fanno quello che vogliono, resteranno in vita. Per giunta si fa una legge che alimenta i rimborsi delle spese elettorali. Altri soldi. Non bastasse, ecco che i cittadini possono dare ai partiti il 4 per mille sulle dichiarazioni Irpef. Una beffa a testata multipla.

 

Luigi Zanda è stato tesoriere del Pd fino al 2020

 

E dire che è il secondo referendum sul finanziamento pubblico voluto dai radicali. Il primo risale addirittura al 1978. E sempre contro la legge approvata a razzo, in soli 20 giorni, dalle Camere nel 1974. La chiamano «Legge Piccoli» dal suo primo proponente, il segretario della Democrazia Cristiana Flaminio Piccoli. Lui e altri capi dei partiti al governo devono correre rapidamente ai ripari. Il pretore Mario Almerighi ha scoperchiato il pentolone maleodorante dello scandalo dei petroli. Da anni i petrolieri pagano i partiti sottobanco attraverso le forniture di olio combustibile alle centrali elettriche per contrastare le leggi in favore dell’energia nucleare. Per evitare conseguenze catastrofiche si fa la legge sul finanziamento pubblico ai partiti: con la motivazione surreale che è l’unico freno alla corruzione. Anche il primo referendum dei radicali incassa il 90 per cento dei voti, ma non raggiunge il quorum.

 

Finché nel 1992 appare chiaro dalle inchieste giudiziarie che la legge del 1974 non ha fermato affatto la corruzione. E l’ubriacatura non è finita. Anche perché dopo aver aggirato l’esito del referendum del 1993, manovra contro la quale i radicali fanno ricorso che però viene bloccato dalla Corte costituzionale, il finanziamento pubblico riceve appunto una nuova spinta. Questa volta da sinistra.

 

La motivazione è la discesa in campo di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere dispone di enormi risorse e si fa strada l’idea che per contrastarlo servano più soldi. Un sacco di soldi. E i rimborsi elettorali cominciano a decollare. Ecco una prima botta nel 1999, quando al governo c’è Massimo D’Alema. Ma ecco una seconda botta, molto più grossa, nel 2001, proprio con al potere Berlusconi. Che dovrebbe avere tutto l’interesse a non aumentare il foraggio per l’opposizione. Ed ecco una terza botta nel febbraio 2006, mentre il governo Berlusconi è al crepuscolo e già si profila il secondo governo di Romano Prodi. Una botta ai limiti dell’indecenza. Perché è previsto che i rimborsi elettorali continuino a correre anche in caso di scioglimento anticipato della legislatura. Con il risultato che per qualche anno, se questo accade, i partiti riceveranno dallo Stato doppia razione. E che razione. Alle elezioni del 2008 il Pdl porta a casa, e solo per la legislatura appena iniziata, 206 milioni. Il Pd, 180. La Lega, 41. Poi ci saranno i rimborsi elettorali per le elezioni europee e le regionali. Più tutto il rimanente: i contributi ai giornali di partito, le tariffe postali agevolate, le garanzie di Stato sulla stampa politica, gli sgravi fiscali sui contributi privati. Una valanga di denaro, che fa dei cittadini italiani i più tartassati al mondo per finanziare partiti guidati da una classe dirigente peraltro sempre più modesta, impreparata e superficiale.

 

Non poteva andare avanti. Soprattutto con la crescita mostruosa di una forza politica antisistema come il Movimento 5 Stelle. E a un certo punto tutti sia pure malvolentieri, in un Paese che facilmente passa da un estremo all’altro senza ragionare troppo, hanno scelto il suicidio collettivo. La legge voluta dal governo di Enrico Letta e sostenuta anche da Forza Italia e dalla Lega ha azzerato i rimborsi elettorali sostituendoli con la formula del 2 per mille dell’Irpef che i cittadini possono destinare ai partiti con la denuncia dei redditi. Un giro di vite tremendo, per com’erano abituati. Che si riflette anche sui contributi dei privati e delle aziende (non possono dare ai partiti più di 100 mila euro l’anno) ma soprattutto sulla parte più debole del Parlamento: i collaboratori degli onorevoli. Questi già sono vergognosamente sottopagati, ma ora la somma mensile versata ai parlamentari per provvedere ai loro stipendi viene addirittura dirottata in gran parte nelle casse del partito. Con meno collaboratori e peggio pagati perché i soldi che servirebbero per loro devono andare al partito, anche il lavoro dei parlamentari ne risente in modo significativo. Ne va del funzionamento stesso della democrazia parlamentare. Ma nessuno se ne preoccupa perché l’attività legislativa ormai è tutta nelle mani del governo. Deputati e senatori devono soltanto premere un bottone dietro le direttive dei capi del partito.

 

Il problema è che i conti ugualmente non tornano. Mentre la politica prende una deriva pericolosa: i partiti sono sempre più in mano a singole persone o a capi corrente con fondazioni personali che sfuggono alle regole di trasparenza stabilite dai partiti. Con le lobby e i conflitti d’interessi che prosperano. La verità è che una politica degna di questo nome affronterebbe il problema senza ipocrisie, liberandosi del peso della demagogia.