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settembre, 2011

Dieci anni dopo, Ny è Babele

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Può sembrare un paradosso, ma a ricostruire il tessuto e lo spirito della città sono stati stranieri e immigrati. E nei prossimi vent'anni ne arriverà un altro milione. La Grande Mela di ieri e di domani vista dallo scrittore indiano Suketu Mehta

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È successo mentre ero al telefono col mio amico Amitav Ghosh. Era appena tornato dallo Sri Lanka, dove aveva visto le carcasse di decine di aerei nell'aeroporto di Colombo, fatti saltare in aria due giorni prima dalle Tigri Tamil. Mi raccontava un episodio al quale aveva assistito in un Paese sconvolto dalla guerra. Noi, invece, eravamo in America, il Paese nel quale si va a cercare sicurezza e rifugio dalle bombe e dalle guerre.

A mezz'ora a piedi da dove stavamo parlando di conflitti lontani, due aerei di linea si sono andati a sfracellare contro i simboli più vistosi del trionfo commerciale dell'impero americano: le maestose torri del World Trade Center. Vivo a Brooklyn, sulla sponda dell'East River di fronte a Manhattan. Mi sono affacciato alla finestra. Il cielo si è fatto scuro. Dovevo andare a prendere mio figlio al kindergarten. Non appena sono uscito di casa, mi sono accorto che per strada stavano tutti correndo. Eravamo ricoperti da una cenere bianca, come eruttata da un vulcano.

Mentre correvo, i miei vestiti si sono ricoperti di tutto ciò che restava dei documenti e degli oggetti e Dio solo sa cosa c'era in quegli uffici. Era come la nuvola di gas di Bhopal, venuta a tormentare New York. Più tardi, mi sono spinto a piedi verso il lungofiume, da dove si ha una vista panoramica dello skyline di Manhattan. C'era parecchia folla, ma anche uno strano silenzio. Eravamo disorientati dallo skyline, diverso, trasformato così repentinamente. I due enormi edifici che lo caratterizzavano erano spariti. Li sostituiva una colonna di fumo nero. Un uccello solitario cercava con tutte le forze di allontanarsi dalla nuvola tenebrosa.

A intervalli di mezz'ora si susseguivano le notizie di altri schianti di aerei contro il Pentagono, a Camp David, in un aeroporto della Pennsylvania. Alcune di queste notizie poco dopo sono state smentite, per essere subito sostituite da altre voci ancora. Nessuno era al sicuro, da nessuna parte. Sopra le nostre teste si udivano i tristi boati dei caccia militari.

La mia passeggiata sul lungofiume mi ha condotto attraverso il quartiere arabo di Atlantic Avenue, una zona piena di negozi e ristoranti yemeniti, marocchini, libanesi. Ho visto una signora araba che indossava il velo e accompagnava a casa da scuola cinque nipotini, e con lei un signore dall'accento europeo che gesticolava, indicandole Manhattan, dicendole: "Molto bene! Molto bene!". L'anziana signora non ha aperto bocca. "Sono stati loro!", proseguiva l'uomo. Ho superato la zona dei bar e dei negozi arabi, colpito dal fatto di non vedere in giro neppure un poliziotto.

La Guardia Nazionale non è stata chiamata, non è intervenuta per proteggere gli arabi-americani da chi cercava vendetta, anche se i network tv avevano già deciso a chi addossare la responsabilità dell'accaduto. Ho ripensato alle sommosse contro i Sikh del 1984, alla rapidità con la quale gli indiani sono sempre pronti a scagliarsi gli uni contro gli altri alla minima voce che viene fatta circolare. Mi sono reso conto che tra i newyorchesi esiste un minimo di buonsenso, da cui il resto del mondo potrebbe apprendere qualcosa.

Questa è una città che ha imparato non soltanto a tollerare, ma anche a rendere omaggio alle differenze. Le conversazioni per le strade erano improntate più o meno alla stessa cosa. Quello non era semplicemente un attentato terroristico. Era un'azione di guerra. Oppure un film. Per gli americani un evento di tale portata ha un unico riferimento, il cinema. Hollywood non avrebbe potuto realizzare niente di simile alla spettacolare ripresa dell'aereo che si conficca nel World Trade Center, seguita dall'immediata esplosione e dalle fiamme altissime.

Da qui si è fatta strada una generica sensazione di irrealtà. Cose di questo tipo le si può vivere a Colombo, o a Beirut, ma... a New York, come è possibile?
Le strade e i bar si sono trasformati in un unico forum dove incontrarsi e discutere. Le metropolitane e i ponti erano stati chiusi. Ci siamo trovati impossibilitati a muoverci e abbiamo imbastito conversazioni con sconosciuti, con newyorchesi dal cui sguardo di norma rifuggiremmo. Sono entrato in un bar e ho guardato la tv. Il ministro degli Esteri afgano stava facendo un discorso e prendeva le difese di Osama Bin Laden mentre la folla gridava, urlava per zittirlo.

Poi hanno inquadrato George W. Bush. Si sono sentiti fischi, ma ancor più incitamenti. Ha fatto del suo meglio per sembrare un novello Churchill, ma sembrava spaventato e confuso, come tutti noi.
Nell'antichità l'edificio più alto al mondo fu la Torre di Babele, in quella che oggi chiamiamo Baghdad. Si trattò di un'impresa a tal punto temeraria - i suoi costruttori parlavano una stessa lingua e convennero di alzarla fino ad arrivare al cielo - che Dio confuse le loro lingue, così che non potessero mettersi d'accordo e finirono con lo sparpagliarsi nel mondo, abbandonando il loro ambizioso progetto. Secoli dopo una banda organizzata di individui si è lanciata a testa bassa giù dal cielo contro due torri altrettanto temerarie in un'altra splendida città, invocando il nome di Dio.

Solo che questa volta, gli abitanti della città non si sono dispersi, dato che già si esprimevano in una molteplicità di lingue. Al contrario, si sono raggruppati e uniti e hanno iniziato a costruire un'altra grande torre. Questo è il vantaggio della diversità: se hai potuto sperimentare a lungo che cosa significhi collaborare con altre culture, sei meno vulnerabile ai capricci di una divinità invidiosa e alle sue ingegnose macchinazioni per impedirti di raggiungerla. Non per nulla, lo scrittore O. Henry chiama New York "la Baghdad sulla metropolitana". Il multilinguismo è il segno più evidente della diversità culturale, e in base a questo indice New York sin dai suoi inizi è stata una città straordinariamente diversa.

Nel 1643, a distanza di 19 anni da quando i primi coloni valloni avevano fondato New Amsterdam, gli appena 500 abitanti di quella città si esprimevano in 18 lingue diverse. Come nel 1910, l'ultimo anno nel quale si registrò la più alta immigrazione, oggi oltre il 40 per cento della popolazione newyorchese è nata all'estero. Nelle scuole di New York si parlano oltre 160 lingue. Quale altra città al mondo potrebbe subire una cosa del genere - mi riferisco a un attentato apocalittico a opera di una minoranza esaltata - e sopravvivere, nel senso che non soltanto sopravvivono le sue istituzioni e la vita commerciale, ma anche il suo senso della dignità e la sua stessa civiltà?

Nei giorni e nelle settimane successive all'11 settembre, i popoli di tutto il pianeta hanno innalzato cartelli sui quali c'era scritto: "Siamo tutti newyorchesi". C'è stata una vasta ondata di affetto per i civili e la gente perita nelle torri. C'è stato sdegno per i terroristi che hanno massacrato degli innocenti. Tutte le persone di buonsenso si sono schierate dalla nostra parte Poi è successo qualcosa di strano. Invece di dare la caccia ai terroristi, l'America è andata ad attaccare l'Iraq. Bush e Cheney hanno fabbricato le prove di cui avevano bisogno, le fantomatiche armi di distruzione di massa, e hanno scatenato l'inferno in un Paese che non aveva nulla a che vedere con l'11 settembre provocando la morte di centinaia di migliaia di iracheni altrettanto innocenti. Il resto del mondo, sdegnato, è insorto contro l'America.

Di conseguenza i terroristi hanno raggiunto alcuni degli scopi che si erano prefissi: le guerre in Iraq, Afghanistan e Pakistan sono costate al mondo 4 mila miliardi di dollari circa. Quello che anche il resto del mondo deve capire è questo: New York non è l'America. Non appena Bush ha dichiarato guerra all'Iraq, un milione di newyorchesi è sceso in piazza a manifestare contro l'invasione. New York è differente.
È risaputo che lo scrittore E. B. White nel 1948 affermò che esistono tre tipi di newyorchesi: chi c'è nato, il pendolare, chi ci arriva da altri luoghi alla ricerca di qualcosa.

Oggi esistono tre differenti tipologie di newyorchesi: quelli che si comportano come se fossero nati a New York, accampando una sorta di diritto di nascita sulla città pur essendovi arrivati dopo il college; quelli che vi abitano e vorrebbero essere altrove, tanto essa risulta invivibile per loro; e l'insieme virtuale di aspiranti newyorchesi di tutte le città del mondo, da Sarajevo a Santiago, che vorrebbero viverci davvero. Si tratta di tre mentalità newyorchesi dissimili tra loro. Ma che hanno in comune una sorta di forte nostalgia mescolata a un'enorme delusione.

New York è una città i cui abitanti sognano e sono insonni. Cosa la rende così speciale? I newyorchesi sono convinti della sua eccezionalità. Eppure, Toronto è più multiforme, Londra è più grande, Washington è più potente. Che cosa fa sì, dunque, che New York si consideri la capitale del mondo? Perché è questo che asserisce, capite? Vi crea qualche problema questo? Dalla mia finestra posso vedere il buco nello skyline in corrispondenza del punto dove un tempo si elevava il World Trade Center. Vivo nell'epicentro dell'interesse di ogni pazzo esaltato e terrorista del mondo. Gli attentatori dell'11 settembre sapevano bene quello che stavano facendo, quando due dei tre aerei dirottati da loro hanno puntato verso New York.

Quando qualche folle vuole far presente le proprie rimostranze contro l'America, il cristianesimo, il capitalismo, la dance music, e qualsiasi altra cosa, se la prende con New York. Viviamo in questa città come tra l'incudine e il martello. Che cosa accadrebbe se una "bomba sporca" scoppiasse a Times Square? È una bella piazza, sicuramente da visitare, ma non avrei voglia di morirci. Malgrado tutto, le minacce dei terroristi non fermano chi vuole trasferirsi qui da ogni parte del pianeta: due newyorchesi su tre sono immigrati oppure sono figli di immigrati. Come lo sono stato io, quando a 14 anni sono arrivato da Bombay a Jackson Heights nel Queens, il quartiere più cosmopolita di tutti gli Stati Uniti dal punto di vista delle etnie.

I miei vicini di casa erano indiani e pachistani, ebrei e musulmani, haitiani e dominicani, gente che prima di imbarcarsi sull'aereo che li avrebbe condotti lì si erano massacrati a vicenda. Una volta sbarcati a New York, invece, probabilmente non si piacevano lo stesso, ma non per questo si aggredivano. Hanno convenuto di tollerare la vicinanza reciproca.
Spesso i problemi delle città europee si spiegano alludendo alla disoccupazione o alle diseguaglianze. New York, tuttavia, oggi è la città più squilibrata d'America. Secondo uno studio del Fiscal Policy Institute, nel 2007 l'1 per cento dei newyorchesi incassava il 45 per cento dei guadagni complessivi della popolazione cittadina (era solo il 12 per cento delle entrate tre decenni prima, nel 1980).

Vale a dire una media di 3,7 milioni di dollari l'anno per i 34.500 nuclei famigliari più ricchi di New York. Il guadagno medio giornaliero di questo gruppo di persone supera quindi la media annuale di quel 10 per cento della popolazione che guadagna in assoluto di meno. Perché dunque malgrado ciò la gente arriva da tutto il mondo a New York, nel tentativo di fare fortuna? Si calcola che entro i prossimi 20 anni la popolazione newyorchese aumenterà di un altro milione di abitanti, in buona parte immigrati. A New York si arriva perché appena sbarcati da un aereo ogni neo-arrivato trova un posto nella gerarchia della città.

Se consideriamo per esempio un ristorante newyorchese, scopriremo che lo chef può essere francese, i lavapiatti messicani, la cameriera russa, il tassista che vi ci accompagna pachistano, il proprietario britannico. Non sono tutti uguali. Guadagnano in percentuali diverse. Eppure lavorano fianco a fianco, per dar da mangiare a chi ha appetito. Non si tratta di un sistema di caste come quello hindu: non è equo, ma tutti trovano una propria collocazione. Ciò che New York attesta, la vera lezione che riserva alle ricche città consorelle, è questo: l'immigrazione serve.

La città funziona grazie agli immigrati, perfino quelli clandestini. "Benché abbiano infranto la legge varcando illegalmente le nostre frontiere, qualora gli emigrati non fossero venuti o fossero stati respinti nei loro Paesi d'origine l'economia della nostra città sarebbe soltanto l'ombra di se stessa e collasserebbe", ha detto il sindaco Bloomberg. Le scuole della città sarebbero andate in rovina se non fosse stato per i genitori immigrati che hanno investito energie e risorse personali. New York avrebbe subito un netto calo della popolazione se non fosse stato per loro: ricchi e poveri non si sono lasciati demoralizzare dall'11 settembre.

Molti avevano assistito a avvenimenti di gran lunga peggiori nelle rispettive terre d'origine. Se dopo la catastrofe un considerevole numero di famiglie della classe media ha abbandonato la città, gli immigrati sono rimasti. New York City sta per dare il benvenuto a un altro milione di persone, che nei prossimi 20 anni si stabiliranno qui. In grandissima parte si tratterà di immigrati, o di figli di immigrati. Gli immigrati affronteranno senza batter ciglio anche la crisi degli alloggi. Come osserva Joe Salvo, capo della divisione per la pianificazione demografica di New York, "agli immigrati non pesa la densità abitativa: raddoppiano le loro risorse".

L'aspetto interessante di New York è che si tratta di una città di minoranze, priva di una maggioranza predominante. I bianchi, gli ebrei, gli ispanici non superano le altre etnie. La sua stessa struttura politica - il City Council - garantisce che per proteggere i propri interessi ognuna di queste minoranze debba allearsi con le altre. Di conseguenza può accadere che in una giornata qualsiasi il sindaco Bloomberg passi di corsa da un bar mitzvah hassidico a un barbeque afro-americano a una festa per il capodanno cinese newyorchese. Ciascuno di questi gruppi etnici assicura voti preziosi e vota in blocco. Inoltre, poiché le minoranze di norma votano sempre per i democratici, a tutti i livelli, la delegazione di New York al Congresso presenta alcune delle voci più liberal dell'intera Camera.

A New York risiede altresì un'altra comunità, quella delle persone di talento. Qui arriva il meglio del resto del mondo. Il miglior pittore di Amarillo, in Texas, si considererebbe fortunato a entrare nella top ten di un qualsiasi isolato di Williamsburg. Nella diversità delle strade newyorchesi c'è qualcosa di particolarmente attraente per le persone di talento di ogni latitudine, che si tratti di un pianista di San Pietroburgo o di un ingegnere software di Calcutta. Sempre più spesso, i creativi manifestano il forte desiderio di vivere in una città nella quale sia possibile scegliere tra pupusa e paratha (rispettivamente piatto di El Salvador a base di impasto di farina di mais, e pane indiano a base di farina integrale, ndr.).

La diversità non è solo una bella cosa, ma è altresì importante ed essenziale per attirare quel genere di persone che crea ricchezza. La città pullula di comunità di ogni tipo, ogni razza e classe sociale. Ci si aggrega in sindacati, associazioni di quartiere, e soprattutto luoghi di preghiera e devozione. Pochi si rendono conto di quanto New York sia religiosa. L'83 per cento dei suoi abitanti prega regolarmente in una delle 800 tra chiese, sinagoghe, moschee o altri luoghi di culto. E con la nuova recente ondata immigratoria è diventata ancora più devota.

Molti di questi ultimi immigrati sentono forte il bisogno di affidarsi a Dio, affinché egli li aiuti nella loro avventura nel nuovo mondo. New York ha ripudiato i tele-evangelisti, i dogmi cristiani separatisti della madre patria, ma non la religione. La parola d'ordine qui a New York è: "Abbiamo fede negli Dei".
traduzione di Anna Bissanti

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