Le condizioni nei centri di identificazione non fanno che peggiorare. E il sindacato della polizia chiede al Viminale di occuparsi di una situazione ormai insostenibile
L'ultimo episodio è dello scorso 10 agosto: un immigrato marocchino di 31 anni, Moustapha Anaki, è morto all'interno del centro di identificazione ed espulsione di Capo Rizzuto, in provincia di Crotone. Una cardiopatia, la causa ufficiale del decesso. La sua morte è ha fatto da miccia a un contesto infiammabile da mesi. Gli altri migranti, infuriati, hanno devastato il centro: mobili e sistemi di sorveglianza sfasciati, pareti dei muri sbriciolate. La Prefettura ha alzato bandiera bianca: struttura compromessa e quindi chiusa, perché dichiarata inagibile. E di soldi per riparare i danni non ce ne sono più.
Quello di Crotone è solo il più recente di molti episodi simili. Qualche giorno fa Alessandra Naldi, nominata 'Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale' per il Comune di Milano, ha scritto al prefetto in merito al Cie di via Corelli, esigendo chiarimenti non solo sui recenti episodi di violenza ma sul destino della struttura stessa, sempre più scricchiolante per i mesi a venire.
La situazione si è resa così insostenibile che a denunciare, oggi, non sono più solo le associazioni umanitarie ma lo stesso sindacato autonomo di Polizia, il Sap, che ha più volte chiesto un incontro al Ministero dell'Interno per individuare delle soluzioni che tamponino, almeno in parte, condizioni di lavoro inaccettabili, nonché la ripetuta negazione di una sopravvivenza dignitosa per chi è trattenuto.
Nicola Tanzi, segretario generale del sindacato, ha alle spalle 30 anni di esperienza nella polizia giudiziaria e nel contrasto alla criminalità organizzata in Puglia: "Abbiamo chiesto da cinque mesi un incontro col dipartimento Immigrazione del Ministero dell'Interno. Non solo denunciando la mole di spreco di denaro nella gestione dei centri, ma gli stessi disagi di chi è accolto. È un circolo infernale: gli immigrati sono piegati dagli stenti, diventano rabbiosi, spaccano le strutture che li ospitano. La carenza dei fondi non consente di aggiustare i danni. La vita diventa sempre più difficile e il disagio genera nuova rabbia".
Coi tagli del governo Monti la quota riservata a ogni migrante accolto in uno dei 12 Cie attivi sul territorio nazionale si è ridotta all'osso: circa otto volte inferiore a quella di un detenuto ordinario. In media, si parla di 30-35 euro al giorno. La cifra deve coprire le spese di vitto, alloggio, vestiario, cure mediche, mediazione sociale e sicurezza. Una follia. A questo si aggiungono i tagli alle forze dell'ordine: 13mila uomini in meno, in seguito ai provvedimenti dei governi Berlusconi e Monti. Tre miliardi di euro polverizzati nel comparto Sicurezza, proprio quello che gestisce la sorveglianza delle strutture. Ma il paradosso più grande è una legge che sembra complicare ulteriormente la gestione dei flussi migratori sul nostro territorio. "Quando è stata licenziata la Bossi-Fini sull'immigrazione" racconta Tanzi all'Espresso "in audizione parlamentare abbiamo più volte denunciato la nostra contrarietà all'introduzione del reato di clandestinità. Senza contare l'aggravio d'aver allungato i tempi di permanenza nei centri da 6 a 18 mesi. In questo modo non ci sono sufficienti pattuglie per accompagnare in questura i clandestini e, nello stesso stempo, adempiere alla ordinaria amministrazione della sicurezza per le strade. Due obiettivi mancati in un solo colpo".
Eppure, tra il 2005 e il 2012, sono stati spesi, complessivamente, oltre un miliardo e mezzo di euro per il controllo delle frontiere esterne, 55 milioni di euro all'anno per la gestione dei Cie ufficiali, senza contare le strutture temporanee che dovranno essere commutate in centri permanenti, come in provincia di Caserta e di Potenza. Ma i soldi sembrano non bastare mai: ci sono da pagare gli stipendi degli operatori (oltre alle forze dell'ordine, il personale medico, i mediatori, gli assistenti sociali, le imprese che si occupano di pulizia e distribuzione del cibo), per non parlare dei costi di manutenzione ordinaria (ma la cifra è sempre più erosa dai continui danni alle strutture).
"Quello che chiediamo innanzitutto" dice Tanzi "sono precise regole d'ingaggio per i poliziotti: i migranti non sono né detenuti, né liberi, ma, tecnicamente, "trattenuti". Noi, di conseguenza, abbiamo poco spazio di manovra: non possiamo in alcun modo prevenire le esplosioni di violenza. Né sanzionarle, poiché nella legge non si fa cenno a questa eventualità. Anche la fase del trasporto è parecchio complicata: si procede con mezzi ordinari, senza protezioni divisorie che separino l'agente dall'immigrato. Parliamo, sovente, di individui che presentano situazioni di salute estremamente rischiose (non di rado si sono verificati casi di colera, senza contare i malati di Hiv, ad esempio). Entriamo direttamente in contatto con loro e spesso, nella fase di trasporto al centro, si manifestano i primi episodi di violenza. Quando la tensione sale, di norma, ci lanciano le loro feci, o l'urina raccolta in bottiglie di plastica. Alcuni, in preda all'esasperazione, si tagliano, e il sangue schizza sugli agenti o sul personale medico, con quello che questo può comportare".
La procedura del foglio di via, il decreto d'intimazione a lasciare l'Italia entro 15 giorni, è del tutto inutile: se non ci sono poliziotti in grado di accompagnarli alle frontiere per l'espulsione, i clandestini si trattengono sul territorio nazionale. Non hanno denaro, né domicilio. Nei Cara – i centri di accoglienza per i richiedenti asilo - la situazione è perfino più complessa. "Molti entrano la mattina e rientrano la sera" prosegue Tanzi "perché per la legge sono cittadini liberi, e quindi senza controllo. Alcuni si allontanano perché non sono veri rifugiati, ma la Prefettura è costretta a garantire loro, comunque, vitto e alloggio: i soldi, però, sono sempre di meno e le gare di appalto per aggiudicarsi i servizi sono stritolate in una corsa al ribasso dei costi. Il servizio, in questo modo, non può che essere al di sotto dei livelli dignitosi. Il mese scorso c'è stata una riunione al Viminale, alla presenza di tutti i responsabili del Cie (tra cui i rappresentanti delle Forze di Polizia) e il responsabile del dipartimento immigrazione del Ministero. Siamo in attesa di essere convocati questo mese, come ci avevano promesso".
Anche i parlamentari sembrano manifestare in media scarsa sensibilità per l'argomento, se non fosse per qualche rara eccezione, secondo quanto denuncia Nicola Tanzi: "Alcuni di loro si sono mossi per porre l'attenzione sull'esigenza di una profonda revisione della legge Bossi-Fini, come chiedevamo" Rosa Calipari ed Emanuele Fiano del pd, ad esempio "ma in linea generale ci ha colpito l'assoluto disinteresse degli altri in audizione". Si procede a tentoni: il denaro destinato a riparare i frequenti danni alle strutture, ad esempio, è sottratto al capitolo di spesa sull'immigrazione, fondi che, in realtà, dovrebbero essere destinati a migliorare la vita all'interno dei centri.
Angelo Obit, ispettore di polizia in servizio a Gorizia e segretario provinciale della Sap, solleva un'altra questione: le condizioni di lavoro del personale sottopagato, diretta conseguenza delle gare al ribasso nell'assegnazione degli appalti. "L'attività" racconta "deve inoltre essere regolamentata dal Ministro dell'Interno, tramite decreto, e sono necessari dei corsi di formazione specifici, data la delicatezza delle mansioni. Invece, sovente, sono gli stessi migranti a essere assunti per occuparsi degli altri immigrati". Ma la quotidianità è diventata incandescente: aggressioni ordinarie agli agenti, scoppio di liti furibonde tra di loro. E se è vero che il termine massimo di permanenza è di 18 mesi, dopo il decreto di espulsione, se il clandestino non esce dal paese viene di nuovo fermato e rispedito in un altro centro: una sorta di pena senza fine.
Ad oggi, la popolazione di migranti trattenuti nei Cie è di poco meno di 8mila unità, secondo i dati della Polizia di Stato, relativi al 2012. La metà di essi viene rimpatriata, ma il 50 per cento di questa quota rientra comunque in Italia. Senza controllo. Giuseppe Corrado, del reparto mobile di Torino e vice segretario provinciale della Sap Torino, lavora nel Cie della città, in corso Brunelleschi: struttura spesso al centro delle cronache per ripetuti episodi di violenza. "Siamo passati, nel giro di un paio d'anni, da 211 posti letto agli attuali 60, perché chi è trattenuto spesso brucia le stanze. Quando ancora si utilizzavano i container, anni fa, ogni tre giorni veniva sfasciato un televisiore. A fine luglio un aereo da Malpensa avrebbe dovuto decollare per riportare alcuni immigrati nei rispettivi paesi di provenienza, secondo il decreto d'espulsione. La partenza, prevista alle 5 del mattino, è slittata a quattro ore più tardi: alcuni di loro sono saliti sul tetto e hanno dato fuoco al veicolo. Quello che chiediamo è semplice: moduli operativi e direttive precise che possano applicarsi nella stessa maniera in ogni centro, non a discrezione dell'ufficio immigrazione o dei funzionari. Abbiamo sottoposto il problema più volte ai questori, ma senza molta fortuna: non c'è attenzione, né tanto meno ascolto. Ma quello che si deve comprendere bene è che siamo tutti sulla stessa barca: noi e loro. È qualcosa che riguarda tutti, anche se vorremmo girare la testa altrove per non sapere".