Novantanove morti dietro le sbarre negli ultimi mesi, metà dei quali per suicidio. Abusi di potere. Sovraffollamento record. Tagli lineari all'amministrazione penitenziaria. Scarsa applicazione delle misure che permetterebbero ai detenuti di lavorare. La situazione delle prigioni nel nostro Paese non fa che peggiorare. Eppure, qualcosa si potrebbe fare, e non si fa

Andrea, 44 anni, per un’intera settimana non riesce a camminare, a parlare né a mangiare. Vomita di continuo ed è in preda al delirio. I suoi compagni di cella chiedono aiuto - inutilmente - per 24 ore. Gli infermieri si limitano a misurargli la pressione. Dopo quattro giorni, Andrea è ricoverato al reparto protetto dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, dove gli viene diagnosticato un “ictus ischemico esteso in sede cerebrale”. Da allora è in coma irreversibile.

C.G., 28 anni, italiano di origini brasiliane, detenuto nel carcere di Asti, viene accompagnato in infermeria per una visita di controllo. Un agente della penitenziaria lo deride per essersi recentemente convertito alla religione islamica. C.G., offeso, dà un calcio alla scrivania. Seguono dieci minuti di inferno: il detenuto viene preso a calci e pugni alla trachea e al torace, un uomo con il volto coperto da un passamontagna lo immobilizza, gli avvolge la testa con un sacchetto di plastica, gli tappa la bocca con il nastro da pacchi e poi lo appende alle grate dell’infermeria con i polsi legati dicendogli: “Dovreste fare tutti la fine di Stefano Cucchi”.
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E’ la radiografia di un disastro quella fotografata dall’Osservatorio Antigone nell’ultimo rapporto nazionale 2013 sulla situazione carceraria italiana. Dai diritti violati alla mancanza di piani per il reinserimento sociale, i legali della più attiva associazione a tutela dei detenuti riportano dati e numeri ma anche alcuni degli episodi più gravi avvenuti nell’anno appena trascorso all’interno delle mura carcerarie italiane.

Come i 99 morti in dodici mesi, i suicidi, gli abusi di potere, le inchieste giudiziarie, detenuti malati richiusi in cella anche ben oltre il compimento del settantesimo anno di età. E poi, ancora, un sovraffollamento da record che sfiora il 173% e che fa schizzare l’Italia fra i primi posti della classifica nera europea. Le migliaia di detenuti condannati a meno di un anno di carcere per reati di scarsa rilevanza penale ai quali non vengono applicate le misure alternative al carcere, percentuali sempre più basse di carcerati che riescono a lavorare negli istituti di pena. Infine, tagli poco lineari al bilancio dell’Amministrazione Penitenziaria, che riducono del 47% i costi di mantenimento, assistenza e rieducazione dei detenuti ma che invece fanno aumentare del 12,1% quelli destinati ai costi per il personale.

COME BESTIE IN GABBIA
Sono la Liguria (169,9%), la Puglia (158,1%), l’Emilia Romagna (155,9%) e il Veneto (153,4%) le regioni italiane dove si registrano le vette più alte di sovraffollamento. In totale, per 64.047 detenuti stimati dall’ultimo censimento a fine novembre, sono disponibili - secondo Antigone - solo 37mila posti letto. Una carenza ormai cronica che è stata recentemente confermata anche dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. Il sovraffollamento dipende soprattutto dallo scarso uso delle misure alternative al carcere. “Tanto per fare un esempio, la legge Fini-Giovanardi sulle droghe”, spiegano da Antigone, “è fallita nel suo tentativo di pensare a ingressi nelle comunità terapeutiche”. E così ben il 37,4% della popolazione detenuta si trova in stato di custodia cautelare. Un numero senza confronti in Europa. Mentre secondo gli ultimi dati disponibili resi noti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, la percentuale di tossicodipendenti in Italia ha raggiunto il 23,8% con punte più alte in Sardegna (34,1%), Puglia (32,3%) e Lombardia (30,4%). Ancora più alto il numero di persone detenute per violazione della legge sugli stupefacenti, che arrivano ormai al 38,4% dell’intera popolazione carceraria.

NIENTE LAVORO
E così i detenuti si ritrovano a trascorrere 24 ore al giorno in celle fatiscenti di pochi metri quadrati senza ricambio d’aria né luce. Una condizione di “cattività” che accentua istinti violenti o stati depressivi, che aggrava le malattie e che toglie ai carcerati ogni possibilità di riscatto e recupero sociale. Anche perché le speranze di riuscire a lavorare durante la detenzione, sia per tenere la mente occupata che per costruirsi un futuro una volta liberi, continuano ad affievolirsi. Solo 11.579 detenuti (il 17,5% dei presenti) lavorano attualmente negli istituti per l’Amministrazione penitenziaria. E sono ancora di meno nelle carceri dove non si ricorre al “frazionamento”. Ovvero, dove un tempo lavorava un solo detenuto, riuscendo a ricevere un discreto compenso, oggi sono impiegati in due, spesso per periodi di tempo molto brevi per poter consentire anche agli altri, a rotazione, di lavorare. A questi detenuti, poi, si aggiungono i 2.266 che lavorano per altri datori. Fra di loro, 882 lavorano in carcere, mentre 1.266 fuori dalle strutture. Numeri che però sono distribuiti in maniera molto eterogenea in tutto il Paese: il 39% in Lombardia, il 24,8% in Veneto e il 10% in Lazio. Nel resto d’Italia, invece, le aziende in carcere sono praticamente assenti.
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MORTI IN CELLA
E così, in cella, si muore. Nel corso dell’anno 2013 – si legge nel rapporto di Antigone – i detenuti deceduti in carcere sono stati novantanove. Tra le cause, 24 decessi per malattia, 47 per suicidio e 28 per motivi che devono ancora essere accertati. Il primato della morti spetta a Roma Rebibbia (11 decessi in totale di cui 2 per suicidio, 3 per malattia e 6 per cause non accertate). Il detenuto più giovane aveva 21 anni, era marocchino e si è impiccato il giorno dopo Ferragosto nella casa circondariale di Padova. Il detenuto più anziano, invece, aveva 82 anni ed è morto per un malore a Rebibbia. Nonostante fosse affetto da gravi patologie e fosse stato recentemente colpito da un ictus, il Tribunale di sorveglianza aveva rigettato la sua richiesta di scarcerazione. Era molto anziano (81 anni) anche Egidio Corso, detenuto nel carcere di Ferrara, morto durante uno sciopero della fame mentre stava protestando perché non gli avevano concesso una misura alternativa al carcere. In completa solitudine, invece, si è tolto la vita Pasquale Maccarrone, 27 anni, impiccandosi con il lenzuolo del letto nel carcere di Crotone, il giorno dopo il suo arresto.

In carcere si muore anche per malattie non curate. E’ successo ad Alfredo Liotta, trovato cadavere nella sua cella di Siracusa nel luglio del 2012. C’è voluto un anno perché, dopo un esposto all’associazione Antigone, fosse aperta un’inchiesta, ancora in corso. Liotta, malato di anoressia, nei suoi ultimi tre mesi di vita era dimagrito 40 chili e riusciva a muoversi soltanto su sedia a rotelle. Eppure non solo dal suo diario clinico risulta che né la perdita di peso né i parametri vitali siano stati monitorati, ma anzi quando il difensore del detenuto ne ha chiesto la scarcerazione si è sentito rispondere che “Liotta assumeva atteggiamenti artefatti, teatrali, volti alla strumentalizzazione”. Ora ad accertare la verità sarà la Procura di Siracusa, che lo scorso 29 novembre ha iscritto nel registro degli indagati dieci persone (dal direttore del carcere al personale medico competente) disponendo una nuova perizia.

Senza cure è stato lasciato anche Andrea Angelini, 44 anni, attualmente ricoverato all’Unità Operativa Gravi Cerebrolesioni di Imola in stato di coma irreversibile. La notte del 3 marzo 2013, mentre si trovava detenuto al reparto G12 della casa circondariale di Rebibbia, ha un gravissimo malore. I suoi compagni di cella, spaventati, chiedono aiuto. Nessuno li ascolta per 24 ore. Altri quattro giorni devono trascorrere perché possa essere ricoverato in ospedale, dopo che gli infermieri del carcere si erano limitati a misurargli la pressione. La mattina del 13 marzo Angelini viene ricoverato al Sandro Pertini di Roma, dove gli viene diagnosticato un ictus ischemico. Le sue condizioni peggiorano ancora e viene trasferito al centro rianimazione del San Filippo Neri di Roma e poi, ancora, a Imola. Un pellegrinaggio inutile, visto che da allora il 44enne non ha più ripreso conoscenza. Anche in questo caso la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un fascicolo, contro ignoti.
Sono in corso due inchieste (una amministrativa portata avanti dal Dap e una giudiziaria per omicidio colposo aperta dalla Procura di Napoli) per il caso di Federico Perna, un detenuto affetto da una grave patologia epatica e da disagi psichici morto lo scorso 8 novembre a Poggioreale. Perna era entrato in carcere il 20 settembre al Regina Coeli di Roma, poi era stato spostato a Velletri, quindi a Cassino, poi a Viterbo, ancora a Napoli Secondigliano e infine a Poggioreale. Secondo alcune testimonianze, “il detenuto sputava sangue da una settimana”.


ABU GHRAIB AD ASTI
L’ultimo rapporto di Antigone fa luce, anche, su un mondo sottaciuto di violenze fisiche e psicologiche all’interno delle carceri italiane. Un caso di razzismo, violenza e sopraffazione si sarebbe verificato per esempio nel penitenziario piemontese di Asti, già scosso da un’inchiesta giudiziaria che due anni fa si è conclusa con la prescrizione di quattro agenti di polizia penitenziaria accusati di aver sottoposto a feroci pestaggi notturni quattro detenuti. Stavolta i fatti risalgono al 2010 e ad accusare due appartenenti alla polizia penitenziaria è C.G., italiano di origini brasiliane di 28 anni. L’uomo, durante una visita di controllo in infermeria, viene deriso per la sua fede islamica. “Mi hanno detto che Maometto puzzava”, racconterà poi. Il detenuto, molto religioso, reagisce dando un calcio alla scrivania. In tutta risposta viene preso a calci e pugni, imbavagliato e legato alle grate dell’infermeria, il tutto accompagnato da macabri avvertimenti come “farai la fine dei tuoi fratelli ad Abu Ghraib” e “dovreste morire tutti come Stefano Cucchi”. L’uomo molto tempo dopo riesce ad aggirare il muro di omertà inviando una lettera al suo avvocato a nome del suo compagno di cella e solo in seguito a una lunghissima indagine i due agenti sono stati portati a giudizio. Il processo inizierà il prossimo aprile davanti al Tribunale di Asti.

BABY CRIMINALI
Migliora leggermente, invece, secondo l’osservatorio di Antigone, la situazione dei minorenni in carcere. Negli istituti di pena minorili, infatti, ben l’85,6% dei ragazzi uscirà in seguito all’applicazione di una misura cautelare alternativa. Significativo anche l’andamento dei minorenni che saranno collocati presso le comunità sia ministeriali che private, tra il 2001 e il 2012 (ultimi dati disponibili) che sono passati da 1.339 casi nel 2001 a 2.037 nel 2012. Un tendenza che in questi anni ha contribuito a contenere le presenze in carcere. Un discorso molto simile quello della messa in prova ai servizi sociali. Si è passati da 788 provvedimenti nel 1992 a 3.216 nel 2011 con un incremento cresciuto di quasi quattro volte.

COSA FARE?
Da parte degli esperti di Antigone, nel rapporto 2013 arrivano anche suggerimenti concreti rivolti al ministero della Giustizia, che ha promesso una riforma carceraria in tempi brevissimi. I punti fondamentali sono dieci, tutti finalizzati a favorire la reintegrazione dei detenuti.

Fra questi compaiono l’apertura delle celle e delle sezioni per almeno dieci ore al giorno, creare all’interno del carcere laboratori e aree verdi, introdurre il web nelle carceri per informarsi e partecipare alla vita pubblica e consentire – ovviamente a chi non è considerato socialmente pericoloso – di comunicare con i parenti attraverso posta elettronica. Per quanto riguarda la salute, una risposta efficace alla malasanità fra le mura carcerarie sarebbe quella di creare una figura che sia intesa come un medico di fiducia. Suggerimenti arrivano anche per quanto riguarda la vita quotidiana dei detenuti, che spesso si ritrovano a dovere fare i conti con i prezzi “gonfiati” del sopravvitto degli spacci interni alle carceri, più volte segnalati dalla Corte dei Conti. Importantissimo, poi, il fronte istruzione. Sono ancora troppo pochi – solo 316 – i detenuti che si sono iscritti nell’ultimo anno a corsi universitari.

Mentre nel 2012 si sono contati solamente 18 laureati. “E’ importante incentivare ulteriormente gli studi superiori come tassello fondamentale anti recidiva per il percorso individuale”, spiegano da Antigone, “il detenuto deve essere messo in condizione di sostenere un calendario di esami paragonabile a quello ordinario”.