Che fine faranno Cgil, Cisl, Uil in questa fase politica? Le prospettive, in attesa della manifestazione anti-governo del 25 ottobre, sono fosche. Perché il premier ha deciso di riaprire la Sala Verde, ma solo per parlare di rappresentatività e salari minimi. Mentre su art. 18 e Jobs Act ha chiarito che decide da solo

Il Senato è in attesa di abolire se stesso, il Cnel di essere abolito, le Province non si votano più; e i sindacati? Il loro futuro pare sempre più appeso a un filo, anche perché già da un po’ sono finiti nel mirino del ciclone Renzi. Quando il Premier, durante la direzione del Pd del 29 settembre, si è detto disponibile (per la prima volta, dopo tanti governi allergici alla sola idea di concertazione) a riaprire la Sala Verde, quella delle maratone notturne di confronto tra i sindacati confederali e l’esecutivo, sapeva che lì si sarebbe potuto giocare un match importante per tentare di mettere Cgil, Cisl, Uil al tappeto. Tanto che la sfida è arrivata, perfidamente, a poca distanza dalla notizia del mancato accordo tra Camusso, Angeletti e Bonanni sulla manifestazione unitaria contro le politiche fiscali e di sviluppo del Governo.

IN SALA VERDE L'AGENDA LA DETTA IL PREMIER
In fondo, il premier si è guardato bene dal coinvolgere le parti sociali nella discussione sul Jobs Act, cioè l’architrave della riforma del welfare. E infatti, spianate le opposizioni dentro il Pd, ha annunciato: “Adesso la riforma la facciamo comunque”. Con l’effetto che, appena iniziata la discussione in Senato, è spuntata la dead line dell’8 ottobre per portare a casa il via libera dell’Aula, a costo della fiducia.
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E sulla triplice? Non una parola; il retropensiero resta, perciò, quello confessato negli States al Washington Post: “La gente è dalla nostra parte e non dalla parte dei sindacati”.  La Sala Verde, dunque, verrà riaperta, sì, ma solo per discutere tre macro questioni sulle quali Renzi punta a dividere Cgil, Cisl e Uil: la legge sulla rappresentatività, la ridefinizione della contrattazione aziendale di secondo livello e i salari minimi; tutti e tre temi fondamentali per restituire credibilità al sindacato, ma intorno ai quali le posizioni fin qui espresse tra le sigle sono piuttosto distanti.

Di articolo 18 o ridefinizione delle tutele crescenti per l’ingresso nel mercato del lavoro, invece, neanche l’ombra. Un dettaglio, manco piccolo, che non è certo sfuggito alla leader Cgil: “Riaprono la Sala Verde” ma “ci hanno anche dettato l’ordine del giorno”.

LE INCOGNITE DELLA MANIFESTAZIONE DEL 25 OTTOBRE
Resta, perciò, in piedi la manifestazione a Roma del 25 ottobre, con due incognite. Da un lato, riuscire a riempire il più possibile Piazza San Giovanni (su questo Camusso ha ironizzato con lo scetticismo di Renzi: “Perché togliere illusioni a un giovane presidente del Consiglio? Lasciamogliele”); dall’altro, trovare sponda nelle adesioni della Cisl e della Uil, che finora sono parse altalenanti e dubbiose circa l’efficacia della piazza.

[[ge:rep-locali:espresso:285504922]]Il tema della protesta sarà quello, manco a dirsi, della libertà e dell’uguaglianza del lavoro “affinché non ci siano più dipendenti di serie A e di serie B”, scrive la Cgil sul suo sito. Inevitabile, però, che la giornata finisca per caricarsi della madre di tutte le battaglie, l’abolizione di ciò che resta dell’articolo 18, e che punti a essere una prova muscolare del maggiore sindacato italiano, fino a un anno fa in buona sintonia con le scelte del Pd targato Bersani.
 
LA SFIDA ALLA CGIL E LA LOTTA AL PRECARIATO
Intanto, resta acceso il candelotto di dinamite che il Premier ha consegnato da Ballarò in mano ai leader della triplice: “Dov’erano i sindacati in questi anni in cui i diritti dei ragazzi venivano cancellati?”. Una provocazione diretta a tutti, ma in realtà scagliata principalmente contro la Cgil e che infatti Susanna Camusso non ha lasciato senza replica: “Non vorrei dover fare un lungo elenco, però prima o poi lo faremo”.

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In attesa dell’elenco, resta il fatto che, nel 2013, fu lei stessa a dichiarare in un’intervista: “Il sindacato non è stato capace di costruire una strategia di inclusione del precariato e ha subìto una destrutturazione della contrattazione”. E’ esattamente questo il terreno dove è stata sfidata dal Presidente del Consiglio, quando ha preso di mira le diverse forme di precariato succedutesi negli anni. E dire che proprio la Camusso ebbe, quasi renzianamente, a dichiarare in tempi non sospetti: “La conseguenza è stato un costante e crescente utilizzo delle forme non tipiche di lavoro, accompagnata da una contemporanea marginalizzazione lavorativa e sociale di questi lavoratori”.
Non che sul fronte interno la Cgil abbia meno problemi, alle prese com’è tra le sue diverse anime: dalla Fiom di Landini, che continua (pur in mezzo a qualche ammiccamento) a spingere l’acceleratore su un’opposizione dura e pura al Governo, alla non meno forte Carla Cantone, segretaria dei quasi tre milioni di pensionati dello Spi, alla quale sarebbe stato assegnato il ruolo di pontiere nel dialogo col Premier. Proprio la Cantone, tra le principali candidate alla guida Cgil nel 2018, non ha risparmiato critiche verso gli ardori di manifestazioni di piazza: “Per fare la guerra, ci vuole l’esercito”, avrebbe dichiarato in un recente direttivo sindacale.
 
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E le altre sigle? Basta dare un’occhiata allo stato di salute dei maggiori sindacati italiani, per assistere a uno scenario quantomeno turbolento e, infatti, di loro Renzi appare ancora meno preoccupato.
La Cisl si ritrova, di fatto, senza un leader dopo le dimissioni inaspettate di Raffaele Bonanni. Per ora se l’è presa in carico Anna Maria Furlan che, in attesa di investitura ufficiale, è parsa raggiante all’idea di varcare la soglia Palazzo Chigi: “Presidente, siamo pronti. Ci convochi subito!”, ha detto. La Uil, dal canto suo, dovrà scegliere il 19 novembre il sostituito di Luigi Angeletti e intanto il campo è lasciato ad aspiranti candidati come Magda Maurelli, rottamatrice di veterosindacalismo e paladina dei precari; la stessa che, mentre il suo leader minacciava lo sciopero generale contro il Governo, dichiarava che quella sull’articolo 18 “è una battaglia puramente ideologica, lontana dalla realtà”, candidamente proseguendo: “Lo stesso sindacato che oggi attacca il governo in passato ha avallato unitariamente condizioni di lavoro inaccettabili nei call center”. Amen.
Resterebbe il caso dell’Ugl, il sindacato storicamente erede della tradizione di destra e che Renata Polverini riuscì, un po’ a sorpresa, a far sedere da protagonista nelle principali vertenze nazionali; attualmente, si ritrova in stato di choc dopo le dimissioni di Giovanni Centrella (sotto inchiesta per essersi indebitamente appropriato di ingenti somme di fondi sindacali), e con un nuovo segretario nazionale, Geremia Mancini, ancora alle prese con la riorganizzazione interna e con le faide tutte interne alla sua sigla.
 
MA SI PUO' FARE A MENO DEI SINDACATI?
A far apparire lo scontro tra Governo e Sindacati un dialogo fra sordi è anche la siderale distanza nell’uso della comunicazione e del linguaggio. Il primo alla ricerca di smantellare le presunte rendite di posizione del sindacato (dall’opacità dei bilanci alla mancata applicazione dell’articolo 18 per i suoi dipendenti) a mezzo social e interviste; i secondi ancorati a una ritualità che parla di “proseguimento del confronto per l'elaborazione di una piattaforma unitaria”. Insomma, Renzi usa l’hashtag “italiariparte”, Camusso quello “tutogliioincludo”.  

Qualcuno, tuttavia, inizia a osservare il rischio che “spianare” tout court i sindacati equivarrebbe a smantellare un pezzo fondamentale della democrazia; è il caso, per esempio, del  costituzionalista Michele Ainis che, nel corso di un’intervista a Sky Pomeriggio, pur riconoscendo i disastri prodotti da Cgil, Cisl e Uil, ha avvisato che “non si può fare a meno dei Sindacati. Il merito di Renzi, sin qui, ha riguardato la fase destruens, ma questo è un paese che non va solo distrutto, ma ricostruito e qui il Presidente del Consiglio inizia a mostrare qualche lacuna”.