L’autore del best seller dell’anno aveva scritto il programma economico di Hollande. Che però in questi giorni lo tradisce. In nome dell’alleanza con Berlino. Segno che c’è ancora molta strada per far cambiare ?idea a Merkel. ?E Draghi lo sa

In pochi mesi il volumone di Thomas Piketty “Il Capitale” - titolo preso in prestito a Carlo Marx ma con l’aggiunta “nel XXI secolo” - ha acceso dibattiti e diviso gli economisti, ma è anche diventato un caso editoriale schizzando in testa alle classifiche di Amazon e vendendo più di 200 mila copie. Eppure è un saggione di 700 pagine zeppo di dati, tabelle ed equazioni comme il faut. E allora? Forse lo hanno aiutato i molti tentativi di smontarne le tesi controcorrente, subito rintuzzati perfino da un premio Nobel, Paul Krugman. Ma nemmeno questo basta a trasformare un libro di economia in un bestseller mondiale. Come si giustifica dunque tanto successo?

Qualche settimana fa lo ha spiegato Uri Dadush (“l’Espresso” n. 24) osservando che le tesi di Piketty, un economista francese poco più che quarantenne svezzato a Parigi e specializzatosi al Mit di Boston, irrompono con decisione nel vivo del dibattito economico che dal 2007 scuote Stati Uniti ed Europa, ma soprattutto danno contenuto ai sentimenti di tanti perché puntano il dito contro le disuguaglianze sociali ed economiche ingigantite dalla Grande Crisi. Secondo questo novello Marx (la definizione è dell’“Economist”), il mondo si trova oggi in una situazione molto simile a quella del XIX secolo, prima cioè della rivoluzione fordista che allargò la platea dei percettori di reddito da lavoro: oggi come allora, infatti, le rendite finanziarie crescono più dell’economia, quindi chi dispone di capitali diventerà sempre più ricco a spese di chi vive solo di lavoro destinato a restare sempre più povero. E così sarà ancora per anni, dice, mettendo a rischio l’essenza stessa della democrazia. Fino a che non si capirà - conclude - che è indispensabile arginare l’eccesso di deregulation dei mercati finanziari e imporre una tassa sulla ricchezza.

Ora, al di là della bontà dell’analisi e della praticabilità delle ricette (ve l’immaginate voi una tassa mondiale sulla ricchezza? Perché se così non fosse, per paradosso non colpirebbe i grandi ricchi liberi di trasferire i loro capitali dove la tassa non c’è), Piketty ha il merito di aver gridato alta e forte la domanda che tutti si fanno, ma alla quale nessun governo ha finora dato risposta concreta: la crescita e il benessere possono identificarsi solo con la buona salute del capitale finanziario? Anzi, molti politici e uomini di governo se la pongono eccome la questione, ma sembrano marciare in tutt’altra direzione. Pochi giorni fa, per esempio, François Hollande ha licenziato il suo ministro dell’Economia Arnaud Montebourg reo di aver criticato la politica di austerità e di aver invocato meno rigore e più crescita. Vale la pena ricordare che Montebourg è un tifoso del nuovo “Capitale” e Piketty non solo è uno dei 42 professori universitari che durante le presidenziali firmarono una lettera aperta anti Sarkozy e pro Hollande, ma anche l’autore del programma economico del futuro presidente francese...

Così va il mondo. Confermando alcune certezze, perfino ovvie, ma con le quali non si fanno i conti fino in fondo. La prima è che non bastano le ricette economiche, ma occorrono decise scelte politiche; che queste pesano ancora molto; che, a proposito, l’asse franco-tedesco che condiziona da decenni la storia europea, è saldo e duraturo e viene prima di un Montebourg e del programma economico del gabinetto Hollande; che, ancora, non si può pensare di risolvere le cose solo a casa propria, ma che bisogna lavorare per coinvolgere alleati e compagni di strada; che, infine, questo non può diventare alibi per non fare i compiti a casa.

Insomma, il cuore del problema è ancora quello: un saggio equilibrio tra rigore e crescita, tra spesa pubblica e investimenti, tra equa tassazione e accanimento fiscale sui soliti noti, tra rigore di bilancio e flessibilità. È la strada che Mario Draghi difende da almeno due anni, cioè da quando la recessione si è colorata di deflazione, e che ha indicato ai banchieri centrali riuniti a Jackson Hole con la formula «oggi è più rischioso fare troppo poco che troppo». Con una carta in più, stavolta: che anche la Germania comincia ad ammalarsi. Speriamo allora che trovi il consenso necessario. E che, come auspica Pierluigi Ciocca, ci sia un economista a Berlino...

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