La direzione Pd ha approvato a maggioranza, 130 sì, 20 no della sinistra del partito e 11 astenuti, un ordine del giorno di sostegno al governo nella riforma del lavoro. Così il segretario cambia pelle al Partito Democratico e ridisegna definitivamente il rapporto con i sindacati. L'attacco di D'Alema: «L’oratoria, purtroppo, certe volte, fa sì che non ci sia attinenza tra quello che si dice e la realtà»

Un documento scarno, senza dettagli, evidentemente rimandati alla discussione in aula, quando ci sarà da affrontare il problema degli emendamenti presentati dalla minoranza Pd al Jobsact, alla legge delega sul lavoro. Anche se, è certo, adesso vale quello che ha detto il capo dei senatori Luigi Zanda, uscendo dalla direzione: «abbiamo votato e io il vincolo politico lo sento». La direzione ha votato, ha approvato (130 sì), la minoranza si è spaccata, con il gruppo di Roberto Speranza che si è astenuto (11 voti), e Civati, D’Alema e Bersani che hanno messo insieme solo venti voti contrari.
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L’unica cosa che è stata messa nero su bianco è che, per l’art 18, il diritto al reintegro verrà abolito, e rimarrà solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari.

Per Matteo Renzi, questo il compromesso. Gli altri punti sono generici, dicevamo, più generici della legge delega, se possibile. La direzione del Pd ha infatti deciso di

1) «estendere i diritti ed universalizzare le tutele, offrendo una rete più estesa di ammortizzatori sociali ai precari»,

2) «ridurre le forme contrattuali, a partire dall'unicum italiano dei Co.co.pro, e favorire i contratti di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti»,

3) di «garantire servizi per l'impiego volti ad interesse nazionale e no a consorterie locali».

Chi si aspettava i dettagli, è così rimasto deluso: «Vorrei capire se qualche emendamento delle minoranze vedrà il favore del Pd perché è anche da questo che si vede il tono della mediazione» ha ripetuto nel suo intervento, inutilmente, Giuseppe Civati, sofferente. «La linea è chiara, ora lealtà in Parlamento», conferma Lorenzo Guerini intervistato da Repubblica.
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Lo stesso Renzi amette che il documento vero e proprio andrà definito, anche per chiarire cosa vuol dire «disciplinari», e poi per affrontare gli altri nodi, per capire quali sono i contratti precari da cancellare o come si favorirà la mobilità interna senza aprire al demansionamento selvaggio. Ma non fa niente. Matteo Renzi sa che ci sarà ancora da discutere, ma è tranquillo: «Franchi tiratori al Senato sul Jobs Act? No, non me ne aspetto anche perché c'è stata una discussione seria, lunga, al termine della quale il partito si è espresso».

E perché la minoranza Pd non può che accontentarsi, come già sta facendo, nelle parole di Cesare Damiano, dell'«importante risultato» ottenuto con il riferimento ai licenziamenti disciplinari, inizialmente non previsti dal premier.

Il premier può esser molto soddisfatto del risultato finale, e lo è se è vero quanto scrive il Corriere nel suo retroscena, comunque buon termometro per misurare l’umore. Ai suoi collaboratori avrebbe detto: «Li ho spianati», «D’Alema ci sta dando una grossa mano, ve l’avevo detto che era ancora incavolato nero per la nomina europea», «la musica è cambiata».

Nel suo intervento d’apertura, e nelle conclusioni, comunque, Matteo Renzi aveva chiarito la sua visione, senza lasciare molti dubbi sulla direzione di marcia. Ancora pochi particolari, ma il copione era il suo, anticipato con la partecipazione a Che tempo che fa, su Raitre. «Si dirà non sono le regole del lavoro a creare posti di lavoro. Certo. Ma non si può far finta di non vedere che senza intervento sulle regole non si va da nessuna parte».

«A chi i dice che eliminando l’art. 18 togliamo un diritto costituzionale, dico che il diritto costituzionale è al lavoro non all’art. 18». «Perché ci siamo sempre fermati di fronte all’impressione di un totem?».

«Il lavoro non si crea difendendo le regole di 44 anni fa». «Il sindacato italiano ha bisogno di essere sfidato in positivo». E però, «sono disponibile a riaprire la sala Verde Di Palazzo Chigi e riaprire il confronto con le sigle sindacali: li sfido su una legge sulla contrattazione sindacale e sul salario minimo».

E proprio dal sindacato, dalla Fiom, arriva una nota di merito sulla scelta fatta sull’art.18. Maurizio Landini, propone a Renzi «un confronto pubblico, scelga lui dove e come», e spiega così, intervistato da Repubblica, il problema: «La discriminazione è regolata nel codice civile, il licenziamento disciplinare nei contratti. Il giudice, quando decide per il reintegro, lo fa perché ritiene false le motivazioni. Se annullo il reintegro vuol dire che l’azienda anche con motivazioni false può licenziare, e che l’onere della prova cade sul lavoratore».

Il premier ha aperto poi, ufficialmente, all’anticipo del Tfr in busta paga, «a condizione che si creino le risorse di liquidità attraverso un protocollo tra Abi, Confindustria e governo per consentire alle imprese di avere quella liquidità». Su questo si registra già una prima reazione, contraria, di Rete imprese Italia: «In questa fase di perduranti difficoltà per il nostro sistema produttivo» dicono, «è impensabile che le piccole imprese possano sostenere ulteriori sforzi finanziari, come quello di anticipare mensilmente parte del Tfr ai dipendenti».

Alla legge di stabilità Renzi ha rimandato, infine, per le coperture, annunciando «almeno 2 miliardi di riduzione del costo del lavoro». Con una premessa, rigorista, però: «Abbiamo scelto di rispettare il limite del 3%» dice, perché «sappiamo che il danno di reputazione che l'Italia avrebbe sarebbe più grave dei vantaggi che potremmo avere». Giustificata è così l’osservazione di Andrea Ranieri, civatiano, uno dei primi della minoranza a prender la parola: «Mi fa piacere, Matteo, che metti tutti questi soldi. Mi piacerebbe sapere anche dei tagli però, per sapere se ci conviene».

La replica più attesa è quella di Massimo D’Alema.

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Un susseguirsi di bordate: «Sono un ammiratore dell’oratoria del segretario che secondo una visione moderna si rivolge più a un vasto pubblico che a noi che siamo qui» è l’esordio, «ma l’oratoria purtroppo, certe volte, fa sì che non ci sia attinenza tra quello che si dice e la realtà». D’Alema fa notare a Renzi che il governo Prodi investì 7 miliardi sul costo del lavoro, «e che non è quindi la prima volta che si interviene sul cuneo», e poi che «non c’è nessun tabù, perché l’art. 18 non ha 44 anni ma due anni», quanti cioè ne ha la legge Fornero.

«Mi scuso per l’oratoria terra terra», continua D’Alema, sprezzante. «L’art.18 non esiste già più ma esiste una tutela residuale che si riferisce a una grave illegittimità». Bisogna semmai «monitorare quella norma», che anzi «non copre tutta la casistica che dovrebbe coprire».


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«Non è obbligatorio sapere i fatti, ma sarebbe consigliabile studiarli», ripete più volte D'Alema, ripercorrendo la storia delle ultime riforme, anche mancate, del lavoro. «La pura eliminazione della possibilità del reintegro sarebbe l’applicazione del modello spagnolo», continua l'ex premier, «supereremmo anche il Regno unito di Thatcher e Blair, e non vedo perché dovremmo porci fuori dal confine della civilità». «Una riforma di questo tipo» dice poi D’Alema riferendosi alle coperture per gli ammortizzatori sociali, contropartita del più facile licenziamento, «non costa un miliardo e mezzo di cui parla il segretario, ma dieci volte di più». La critica di D’Alema è a tutta la legge di stabilità: «Le finanziarie» dice, «non si fanno con molti spot, un miliardo qui, un miliardo qua, cifre piccole che rischiano di non dare effetti».

«Io non ho la leggerezza di Massimo D’Alema» dice poi Giuseppe Civati, che pure però non va per il sottile: «Ieri sera in tv ho visto un premier che diceva cose di destra, e non so se è questa la nuova sinistra».
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Civati si lamenta soprattutto della «velocità» delle informazioni date dal premier, soprattutto sulle coperture ma anche sui limiti del contratto unico: «vorrei capire se questo contratto potrà o no esser aggirato in continuazione».