Questa lunga crisi ci ha fatto perdere la fiducia in una via d’uscita. Però ci costringe anche a riflettere sulle nostre abitudini, sui nostri consumi, sui nostri bisogni, sulle nostre convinzioni. E quindi a cambiare le regole del gioco
Lo smarrimento di questi tempi, più che un sentimento soggettivo è una condizione oggettiva e condivisa. Ci si sente smarriti perché lo si è effettivamente. Perché - per dirla nel modo classico - non si vede una via d’uscita. La crisi economica prolunga le sue tenebre ben oltre le vie di fuga occasionalmente indicate da svariate autorità governative e finanziarie; la riorganizzazione del pensiero politico non sembra ancora avere trovato nuovi cardini solidi dopo lo scardinamento del bipolarismo capitalismo-comunismo; i movimenti “nuovi” spesso invecchiano senza avere messo radici abbastanza robuste (fa impressione pensare che i no-global e Seattle risalgono alla fine dello scorso millennio); attecchiscono velocemente, ahimè, solo la malapianta del fondamentalismo religioso e quella della xenofobia paranoica.
Nel mezzo dello smarrimento, hanno fortuna le semplificazioni e fanno fortuna i semplificatori. Quelli che ti si avvicinano e ti dicono: affidati a me, io lo so da che parte si esce. Seguimi. Se gli si concede credito, ai semplificatori, non è perché li si reputi infallibili. Sospettiamo in loro un quid di millanteria e/o di faciloneria. Se accettiamo di seguirli è perché lo smarrimento genera ansia, e pur di uscire dall’ansia (che è una sensazione insopportabile) si è disposti anche all’avventura, al tentativo azzardato. Tutto pur di non rimanere seduti a rimuginare sul da farsi, sentendosi ogni giorno un poco più impotenti, un poco più smarriti.
Matteo Renzi è il classico semplificatore. È un semplificatore - come dire - non esiziale, non pericoloso quanto può esserlo un razzista, un fanatico religioso o un cialtrone assoluto come fu Berlusconi; è un semplificatore che non sembra avere effetti collaterali micidiali; è, per dirla in maniera banale, un semplificatore democratico. Ma basta sentirlo parlare, veloce, assertivo, sicuro di sé anche quando si capisce benissimo che non potrebbe permetterselo, per capire che lo è, un semplificatore; che la realtà è molto più complicata e dunque molto diversa da come ce la racconta; e che lo abbiamo votato in tanti - me compreso - nella speranza che ci salvasse dallo smarrimento. Che provasse a rimettere in marcia la comitiva verso una qualche direzione.
Nell’ipotesi - ahimè non improbabile - che ci siamo sbagliati; e che Renzi, nonostante il piglio da problem solver, nonostante le sue migliori intenzioni e nonostante i nostri più benevoli auguri, non riesca a schiodarci da dove siamo, a diradare le nebbie che ci avvolgono; beh, in quel caso dovremmo imputare l’errore a noi stessi e alla nostra ansia. La lezione, in quel caso, potrebbe essere questa: che dobbiamo accettare di essere smarriti. Che non dobbiamo ribellarci al nostro status di smarriti, non dobbiamo cercare scorciatoie, non dobbiamo imbrogliare noi stessi raccontandoci che se ne può uscire facilmente.
È possibile essere degli smarriti felici? Beh, “felici” forse è esagerato; diciamo degli smarriti pazienti, sereni, che della loro condizione non facile riescono a cogliere anche qualche aspetto positivo? Forse sì, è possibile. Naturalmente, molto dipende dalle condizioni economiche e sociali di ciascuno: una persona che ha la pancia piena, e fieno in cascina, può affrontare il futuro con una maggiore dose di ottimismo. Chi ha pochissimo, e quel pochissimo se lo vede smangiare dalla crisi, avrà meno voglia di indugiare e men che meno di sorridere alla sorte, e coltiverà il legittimo desiderio che le cose cambino in fretta a suo vantaggio, a costo di ribaltare il tavolo. Ma diciamo che per una buona maggioranza di persone è sicuramente vero che la crisi propone (anzi, impone) di riflettere piuttosto radicalmente sulle proprie abitudini di vita, le proprie convinzioni politiche, i propri consumi, i propri bisogni, le proprie priorità, i propri rapporti sociali. Ciò che diciamo per consolarci - cioè che “crisi” significa anche passaggio, cambiamento e rinascita - è probabilmente molto più vero di quello che pensiamo.
Accettare che il proprio reddito si riduca, che il proprio potere di acquisto diminuisca, che si contraggano le ambizioni non è facile, specialmente se si è giovani e già in partenza ti spiegano che no, non sarà possibile eguagliare il livello di vita dei genitori, e forse neppure avvicinarlo. Peraltro, è esattamente questo che sta accadendo in Occidente: un ciclo di prosperità e di conquiste si è chiuso, e con esso perdono credibilità molti dei paradigmi che quel ciclo hanno governato, primo tra tutti, ovviamente, il mito della crescita illimitata.
In questo senso sono facilitati, o dovrebbero esserlo, gli smarriti che provengono da una cultura critica. Vedono incrinarsi molte delle illustri vetrine alle quali hanno sempre guardato con diffidenza. Si sono sempre chiesti se e quando sarebbe stato possibile fermarsi per riflettere su come viviamo, e per che cosa lavoriamo come dannati. Hanno sempre pensato che c’è qualche vizio di fondo in una società che pur di cambiare smartphone ogni sei mesi risparmia sulla qualità del cibo (cioè sul primario più primario, sul proprio corpo e la propria salute) e rinuncia a libri, teatro, cinema non considerandoli status symbol. Beh, il momento di riflettere è esattamente questo. È il momento nel quale la direzione è perduta e le promesse di rinascita non possono più permettersi di riciclare se stesse, perché abbiamo capito che se si rinascerà sarà in altre maniere, con altri modi, altre regole, altre parole, altri mezzi.
Non è per consolazione, ma per realismo che si deve accettare lo smarrimento come la cornice entro la quale ci muoviamo, qui e ora. Nella mia posta dei lettori (sul Venerdì di Repubblica) ricevo parecchie lettere di rabbia e insofferenza, quasi tutte legittimate (per esempio quelle degli esodati) da un torto subito, da un’onta immeritata. Ma ne ricevo, sempre più numerose, di riflessione profonda su come siamo arrivati fin qui, come abbiamo vissuto, di quali errori ci siamo macchiati e quali meriti possono rinfrancarci. Ci sono bilanci di vita che la crisi sollecita, c’è pensiero da elaborare a proposito delle disuguaglianze che sono aumentate (implacabile capo d’accusa a carico degli anni alle nostre spalle) ma anche dell’uso che del benessere abbiamo fatto. Sempre più ricchi (almeno fino al 2008) ma con una socialità (non parlo solo del Welfare) sempre più evanescente: ricalcoliamo, per piacere, come un costo che grava sul nostro bilancio anche la perdita di socialità, lo sfarinarsi dello spirito di comunità, la sensazione di solitudine crescente. Se no, significa che il bilancio è truccato. Avere poco in una società egoista e frantumata è molto più irrimediabile che avere poco in una società coesa e solidale.
Uno dei grandi vantaggi, se accettiamo di vivere lo smarrimento senza farci corrompere dall’ansia, è che forse possiamo aiutare la politica (che in questo momento annaspa in maniera paurosa, ed è molto più indietro di noi) a recuperare un poco di terreno. Trasmettendole ansia, facendole credere che la sola cosa che ci importa è uscirne fuori in qualunque modo e a qualunque costo, rendiamo peggiore anche la politica: più frettolosa e più incline alla truffa ideologica. Mi piacerebbe votare, una delle prossime volte, per qualcuno che incarni con intelligenza (meglio di me, voglio dire: perché non dobbiamo votare per chi è uguale a noi, dobbiamo votare per chi è migliore di noi) il mio smarrimento. Che non venga a raccontarmi che “se ne viene fuori presto e subito, bastano cinque o sei riforme per decreto legge”. Che non venga a dirmi che riflettere è un vizio che non possiamo permetterci. Che non mi rintroni la testa con il Pil che riparte. Che si sieda accanto a me e mi dica: «Ci siamo persi. È un bel casino. Forse potremo venirne fuori, ma solo cambiando strada. Proviamo a trovarla, ma senza ansia. Più ansia ci mettiamo, meno facile sarà trovare una soluzione».