Assieme a Lia Quilici è stata una delle firme storiche dell'Espresso. Ma chi si nascondeva dietro allo pseudonimo?
Quando è arrivato il grande lenzuolo io avevo appena ventitré anni e lo guardavo con rispetto (e fedeltà) ma non pensavo che un giorno vi avrei scritto. Inoltre, specie le pagine culturali, mi parevano ancora ispirate al crocianesimo trionfante e noi eravamo già un’altra generazione. Parlo di crocianesimo trionfante perché quando poi ho iniziato a collaborare Eugenio Scalfari (ed era lui che mi aveva voluto arruolare) vedendo che recensivo Lévi-Strauss, gli strutturalisti, e altre cose del genere mi aveva detto «ma stai attento che i nostri lettori sono avvocati crociani meridionali e non capiscono queste cose». Io gli avevo risposto che no, che tra i lettori de “l’Espresso” c’erano ormai anche i figli degli avvocati crociani meridionali, e a loro parlavo. Così Scalfari da un lato strizzava ancora l’occhio agli avvocati crociani con gli articoli di Vittorio Saltini, dall’altro mandava in prima linea alcuni guastatori, e insieme a me aveva incominciato a terrorizzare gli avvocati con gli articoli di Giorgio Manganelli.
Insomma, sin dall’inizio una corrente alternata di simpatia e polemica. Ma che altro voleva essere “l’Espresso”?
Fatto sta che Scalfari un giorno di cinquant’anni fa mi ha chiesto di incontrarci e mi ha proposto di iniziare una collaborazione settimanale a “l’Espresso”. Si vede che aveva bisogno di qualcuno in casa con cui litigare. Sovente abbiamo litigato, sovente siamo filati d’amore e d’accordo. Ancor oggi, tra bustina soffiata e vetro di Minerva.
Il bello dell'Espresso era che, una volta trovato un tema, un problema, non ti poneva limiti di spazio (salvo i limiti naturali di quel prodotto cartaceo) e ti lasciava andare avanti come volevi. Non mi è mai accaduto di essere censurato. Tagliato sì, perché alcune righe non ci stavano più, e la redazione tagliava a occhi chiusi; oppure travisato, quando il giornale, per il suo vizio (o virtù) di fare titoli accattivanti, magari fatti di giochi di parole, diceva nel titolo il contrario di quello che tu avevi scritto. Magari avevo recensito, che so, un insigne critico, e il titolo parlava di “La macchina affetta poeti”, e l’insigne critico (permaloso come tutti i critici insigni) mi chiedeva che cosa avessi voluto insinuare, e a quei tempi nessuno aveva ancora introiettato il sacro principio che il titolo non lo mette mai l’autore dell’articolo, ma all’utimo momentio un redattore che ha sbirciato dell’articolo solo le prime righe.
Ma, salvo questi inghippi, quanti bei ricordi di tutte le belle inchieste ai tempi di Zanetti e dei supplementi a tema. Poi Valentini un giorno mi ha proposto la rubrica settimanale, e cioè l’attuale Bustina, io ho accettato ma dicendo che mi sarei fermato dopo un poco. Ed ecco che sto celebrando i trent’anni della Bustina. “L’Espresso” è una malattia endemica. [[ge:rep-locali:espresso:285164252]] Di questi cinquant’anni della mia collaborazione e sessanta del giornale vorrei ricordare due figure chiave del giornalismo italiano, Telesio Malaspina e Lia Quilici.
Telesio Malaspina: un nome così incredibile nessuno poteva inventarlo (mentre un padre aveva effettivamente battezzato Cilindro il grande Montanelli); quindi Telesio doveva esistere davvero. Invece no, con Lia Quilici era un nome redazionale, cioè diversi collaboratori del giornale firmavano con quei due nomi e credo che oggi, andando a controllare le raccolte de “l’Espresso”, sia ormai impossibile dire chi quella settimana fosse Telesio Malaspina (forse se si sono conservati gli archivi dell’amministrazione si potrebbe stabilire chi era stato pagato quella volta per quell’articolo).
Perché questi due nomi dello schermo? Per varie ragioni. La più ovvia era che quella settimana il collaboratore tale aveva già firmato un articolo e stava male avere due articoli dello stesso collaboratore; pertanto l’articolo meno importante veniva firmato Malaspina o Quilici. Talora però la ragione era più grave, se l’articolo rivelava cose scottanti e l’autore firmava col proprio nome si poteva capire chi era la fonte segreta che lo aveva ispirato; ed ecco che per proteggere la fonte l’autore si celava sotto la maschera di Malaspina o di Quilici.
È successo a me: ero a Praga quando sono arrivati i carri armati russi e mi stavo recando in Polonia per un convegno di semiotica; mi ero reso conto che tutto accadeva intorno al Ferragosto e tutti i giornalisti italiani erano andati in vacanza (Ted Schulz del “New York Times” no, ma gli italiani li avevo ritrovati a Vienna, quando ero uscito dalla Cecoslovacchia, al Sacher Hotel, in attesa snervante perché alla frontiera non li lasciavano entrare). Pertanto “l’Espresso” aveva avuto il primo reportage da Praga, e l’avevo fieramente firmato col mio nome.
Ma poi, da Vienna, ero riuscito a raggiungere la Polonia con aereo che per evitare i cieli cecoslovacchi aveva volato sul Baltico. A Varsavia si era svolto il convegno, ma intanto avevo cercato di capire che cosa stava accadendo da quelle parti, in un clima di grande diffidenza poliziesca, per cui avevo potuto incontrare persone come Kolakowski o Morawski solo in bar defilati o sulle panchine di un giardinetto di periferia. Avevo pronto un lungo articolo, e lo avevo infatti spedito una volta tornato a Vienna, ma se lo firmavo col mio nome, visto che si sapeva (o la polizia sapeva) che ero stato a Varsavia, ecco che mettevo nei guai i vari amici con cui avevo parlato. Così non ricordo bene se Lia Quilici o Telesio Malaspina mi sono corsi in aiuto.
Chissà quanti lettori, colpiti da questo o quell’articolo, avranno desiderato di conoscere Telesio Malaspina. Ahimè questo fantasma si è aggirato per anni e anni nei corridoi del settimanale senza mai fare il suo bel “coming out”. Di che colore politico era Telesio? Era giovane o anziano? Era omo o etero? Credente o ateo? Difficile rispondere perché da articolo ad articolo la sua fisionomia cambiava, talora si arricchiva di indizi nuovi. Per me Lia Quilici era una signora oltre i quaranta, un poco snob, che girava per salotti, anche se non sdegnava le buvette di Montecitorio o di Palazzo Madama; e Telesio era allampanato, con i capelli un poco ricci, sul biondo-rosso e aveva una faccia tra Cancogni e Clint Eastwood.
Ma chissà come erano per altri. “L’Espresso” compirà i suoi cento anni e il mistero di questi due grandi giornalisti onnipresenti, tuttologi per definizione, rimarrà irrisolto.