Gli esordi. Le battaglie per i diritti civili. Le inchieste sul Palazzo. Le innovazioni nel linguaggio. E il patto stretto con la comunità dei lettori. Per raccontare in modo diverso i cambiamenti del Paese e del mondo. Dal 1955 a oggi è questa la storia de “l’Espresso”

L’Espresso” è nato in formato grande, “lenzuolo”, perché “L’Europeo”, il settimanale fondato nel 1948 da Arrigo Benedetti era così. E la nascita de “l’Espresso”, nell’ottobre del 1955, è legata all’uscita di Benedetti da “L’Europeo”.

 

Ecco come è andata. L’editore de “L’Europeo” era Gianni Mazzocchi, editore di “Domus”, poi di “Quattroruote”, e anche de “Il Mondo”. Ma “L’Europeo” e “Il Mondo” erano giornali con un preciso colore politico e questo a Mazzocchi non stava più bene, voleva occuparsi appunto di architettura, automobili. Così ha ceduto “Il Mondo”, che perdeva, gratis a Nicolò Carandini e altre persone, mentre “L’Europeo”, che guadagnava, lo ha venduto ad Angelo Rizzoli. Rizzoli però voleva una linea politica molto diversa da quella di Benedetti, anzi opposta. E voleva anche cambiare il formato del settimanale, da grande a quello di “Time”, e “Newsweek”. E così ha fatto, sapendo benissimo che questo sarebbe bastato perché Benedetti se ne andasse, senza che ci fosse nemmeno bisogno di discutere la linea politica. Infatti Arrigo ha dato subito le dimissioni, perché per lui il cambio di formato era tutt’uno con un cambio anche di contenuti.

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E siamo venuti da Milano a Roma. Arrigo e io già ci frequentavamo a Milano, dove io facevo il funzionario della Banca Nazionale del Lavoro, e lui aveva un circolo di amici con cui ci si vedeva spesso, Giancarlo Fusco, Camilla Cederna, Emilio Radius, Manlio Cancogni, Antonio Delfini. Poi dopo un articolo contro la Federconsorzi, la Bnl mi ha licenziato…

 

Così, nel 1954, tutti e due abbiamo lasciato Milano e ci siamo trasferiti a Roma, con l’idea di fondare un quotidiano. Era un’idea che già coltivavamo, ne parlavamo la domenica a casa sua quando gli amici facevano salotto con sua moglie e lui ed io ci chiudevamo nel suo studio a parlare di un nuovo giornale.
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Ora eravamo a Roma, e si trattava di realizzarlo. Arrigo disegnava il menabò, le pagine, la grafica, i titoli, ecc. Io invece mi occupavo del piano industriale. Avevo lavorato in banca, e quindi mi intendevo di economia, non solo delle teorie, ma anche delle cose pratiche, la gestione, i costi, i finanziamenti. Ecco, ci chiedevamo, chi può finanziare il nostro progetto, visto che noi i soldi non li abbiamo? Adriano Olivetti, rispondevamo entrambi. Olivetti aveva un suo movimento politico, Comunità, un po’ utopistico, con idee che si ispiravano al socialismo umanitario e cooperativo. La nostra visione era diversa, ma Olivetti era comunque un democratico e, pensavamo, era l’unico grande industriale con una mentalità abbastanza aperta da finanziare un giornale come il nostro.

 

Arrigo già lo conosceva, io ancora no, quando siamo andati a trovarlo a Ivrea, dov’era la Olivetti. Gli abbiamo illustrato tutto il progetto e lui ci ha detto: «Mi interessa, e molto. Vi darò una risposta tra qualche giorno. Io sicuramente devo venire a Roma, vi cercherò e vi farò sapere cosa ho deciso». Quattro o cinque giorni dopo, infatti, è arrivato e ci ha fatto questo discorso: «Ho fatto i conti, sulla base del piano industriale preparato da Eugenio, e ho visto che da solo non ce la faccio. Ho sicuramente bisogno di un socio. E ho anche pensato chi può essere qualcuno che sia gradito tanto a me quanto a voi. Perché la vostra linea politica è di un certo genere e ci vuole qualcuno che non solo la condivida, ma abbia anche la forza di opporsi a certi interessi. Ce n’è solo uno: Enrico Mattei, il presidente dell’Eni. Andate da lui, parlateci, e sappiate che da lui accetto qualunque condizione. Se vuole che siamo soci alla pari, 50 per cento a testa, mi sta bene. Se vuole la maggioranza, mi sta bene lo stesso. Va bene anche se dovessi avere solo il 10 per cento, perché sono convinto che con lui non avremmo problemi di linea politica».

E così Adriano è tornato a Ivrea e noi abbiamo chiesto di parlare con Mattei. Era il presidente dell’Eni, il gruppo pubblico di gas e petrolio nato pochi anni prima. Già si capiva che potenza economica e politica avrebbe raggiunto, Mattei aveva contro i grandi industriali privati e in politica vedeva di buon occhio un’apertura della Dc verso i socialisti.

 

Non lo avevamo mai incontrato di persona, ma lui sapeva benissimo chi era Arrigo Benedetti, che aveva già diretto settimanali importanti. Quando lo abbiamo incontrato e spiegato quello che volevamo fare, Mattei ci ha detto: «Be’, di giornali non mi intendo, ma l’idea mi seduce. Mi piacerebbe avere un quotidiano, acquisterei un peso politico molto superiore a quello che ho. Certo, lascerei autonomia al direttore, non voglio influire, per carità, ma comunque la linea politica la concordiamo... Allora adesso affronterete la questione con alcuni miei collaboratori, la studiate insieme, poi quando avranno finito questo lavoro mi diranno se considerano la cosa fattibile». Uno di questi collaboratori era Umberto Segre, un intellettuale raffinato, filosofo, politologo, giornalista, molto importante in quegli anni, anche se oggi lo ricordano in pochi.

 

Tutti i contatti con gli uomini dell’Eni li ho tenuti io, perché Arrigo diceva «adesso si tratta solo della parte industriale, a me interessa poco, occupatene tu».Alla fine, dopo venti giorni di lavoro ci hanno detto, «adesso il piano va bene, daremo il nostro responso a Mattei».

 

Siamo stati convocati, Arrigo ed io, da Mattei all’albergo Eden, dove lui viveva quando era a Roma. Non viveva a casa nemmeno quando era a Milano, ma insomma a Roma aveva questo appartamento fisso all’Eden dove c’era anche un grande salotto. Mattei aveva deciso: «I miei hanno detto sì. Per me va bene. Potete dire ad Adriano Olivetti di scegliere: vuole il 50 per cento? Io ci sto. Vuole il 10? Ci sto. Anche se volesse il 30 per cento. Scelga, quello che vuole lui a me sta bene». Siamo partiti per Ivrea, entusiasti, raggianti, per questa risposta.

 

Ma Adriano ci ha accolto dicendo: «Ci ho pensato bene. Non c’è proporzione tra il peso che ha Mattei e quello che ho io. Mettersi in società con lui, anche se fossimo alla pari, è come fare un pasticcio con un cavallo e un’allodola. E l’allodola sarei io. Quindi, se volete, potete fare il quotidiano con lui, che lo fa anche da solo. Se invece volete lavorare con me, facciamo un settimanale. Ho fatto convertire dai miei uomini i costi, i ricavi, la pubblicità che voi avete studiato per un quotidiano in un piano industriale per un settimanale. Questo me lo posso permettere. Scegliete , e potete darmi la vostra risposta quando volete».

 

Mentre eravamo sul tassì che ci riportava verso l’aeroporto, Arrigo ha detto: «Senti, io non so tu come la pensi, ma se per Adriano Olivetti lavorare con Mattei significa fare un pasticcio di allodola e cavallo, per noi cosa vorrebbe dire? Un pasticcio di un cavallo con una mosca. Non mi sembra il caso». E io ero d’accordo con lui. Allora abbiamo subito detto al tassista di invertire la marcia, siamo tornati da Adriano per dirgli: «abbiamo già deciso, faremo un settimanale con te». E, nell’ottobre del 1955, è uscito il primo numero de “l’Espresso”.

 

A Mattei l’idea del quotidiano era piaciuta tanto che lo ha fatto, e subito. Nell’aprile del 1956 è nato “Il Giorno”, quotidiano di proprietà dell’Eni dove abbiamo tra l’altro viste applicate diverse nostre idee.
Nel settembre del 1957 Adriano ci ha chiamato: «Guardate, sapevamo di avere tutti contro. Ma qui la Confindustria è arrivata a boicottare gli acquisti di macchine Olivetti. E poi la linea del giornale non aiuta il movimento di Comunità, siete troppo diversi. Essere l’editore di questo giornale proprio non mi conviene. Esco. Ve lo regalo». Così Carlo Caracciolo, che aveva già una piccola quota, ha avuto la maggioranza delle azioni. Ad Arrigo e me, ha regalato il 5 per cento ciascuno. Allo stampatore Tumminelli e alla Kompass (sempre di Caracciolo) che raccoglieva la pubblicità sono andati altri piccoli pacchetti. Così stampatore e concessionaria, essendo soci, lavoravano a costi molto bassi.

 

Da allora siamo andati avanti con la formula “lenzuolo” fino ai primi anni Settanta. Negli anni Sessanta “Panorama” che era nato come mensile, era diventato settimanale ed era il nostro principale concorrente. Il direttore era Lamberto Sechi, l’editore era Mondadori, il giornale aveva adottato il formato e la formula di “Newsweek”, e piano piano da inseguitore che era ci ha raggiunto e superato, arrivando a vendere 180 mila copie, mentre noi eravamo stabili sulle 120-130 mila.

 

Noi avevamo degli amici francesi, che facevano “L’Express”. Era il gruppo di Jean-Jacques Servan-Schreiber, Françoise Giroud, che dirigeva il settimanale ed era la sua amante, e Jean Daniel. “L’Express” è stato un modello per noi, che non a caso abbiamo scelto il nome L’Espresso, anche quando nel 1973 abbiamo deciso che avremmo cambiato, di colpo, il formato.

 

Alcuni dei nostri azionisti erano contrari. Erano raccolti in una società chiamata Piccolo Naviglio, ed erano tutti giovani eredi di dinastie industriali del Nord e tutti politicamente e culturalmente vicini alle nostre idee. C’era Roberto Olivetti, figlio di Adriano, Vittorio Olcese e Aldo Bassetti che, anche se veniva da una famiglia di tradizioni molto cattoliche, era su posizioni laiche, anzi anticlericali.

 

Loro si opponevano al cambio di formato. Ma Caracciolo e io avevamo la maggioranza, e abbiamo detto loro: «Vabbè, a voi l’idea non piace, ma a noi sì. Quindi si fa».
Il primo numero del nuovo formato, nel marzo del 1974, ha venduto 350mila copie. E così il secondo, poi ci siamo assestati intorno alle trecentomila.
Con quelle vendite, per la prima volta nella nostra storia, abbiamo visto i soldi veri.
Fino ad allora eravamo andati avanti con dei bilanci che chiudevano più o meno in pareggio, cinque-sei milioni di perdite o di attivo.

Invece con trecentomila copie e la pubblicità che si impennava, abbiamo cominciato a guadagnare moltissimo. Dopo un anno avevamo un miliardo e mezzo...
E allora ci siamo detti: «Beh, ora lo facciamo, il quotidiano».